Non è omofobo il giudice spagnolo che ha tolto le figlie alla mamma lesbica. Anche Jung gli darebbe ragione

Un giudice spagnolo ha detto che il re è nudo. E naturalmente è subito scoppiato un putiferio tra i cortigiani dello Stato. La nudità non riguarda, va da sé, il Borbone a capo della nazione spagnola, ma piuttosto quel sovrano impersonale, quel pensiero unico così diffuso in Occidente, che in Spagna ha ottenuto, tra l’altro, una legge del 2005 che dice che il matrimonio è l’unione tra due persone. Quindi due individui dello stesso sesso possono, oltre che sposarsi, avere bambini, in affidamento o in altri modi. Bè, il giudice Fernando Ferrin Calamita, responsabile per la famiglia nel sud-ovest del paese, ha tolto a una madre la custodia delle due figlie, di 6 e 12 anni, perché lesbica. E le ha affidate al padre.
Naturalmente tutti gridano all’omofobia. Il giudice però non ha detto nulla a proposito delle virtù o dei misfatti dell’omoerotismo. Ha detto solo che due genitori dello stesso sesso molto difficilmente possono impartire un’educazione capace di integrare nella personalità sia la componente psichica maschile che quella femminile. E con un tranquillo rimando a quello che lo psicologo Jung, più dottamente, chiamava il “lumen naturae”, ha aggiunto: «Non è necessario essere uno specialista in psicologia per comprendere questo, lo dice chiaramente il senso comune». Riferimento prezioso per leggi e sentenze, se soltanto si tornasse a pensarci.
La storia è questa. Due anni fa il marito sorprende la moglie in azione con un’altra donna. Chiede il divorzio, le bimbe vengono affidate alla madre, come da default, il padre ricorre e il giudice Ferrin Calamita, che richiama nel nome proprio i fabbri, antichi celebratori di matrimoni, le ridà al padre. La sentenza non sbrodola in giudizi su inclinazioni e comportamenti sessuali. Semplicemente: la convivenza omosessuale non garantisce a sufficienza «l’educazione e la tutela delle figlie». Perché, appunto, principio maschile e femminile non vi sono equamente rappresentati. Di questo si tratta.
Su questo tema, peraltro, il materiale clinico accumulato in trent’anni di convivenze omosessuali diffuse in Occidente è eloquente. Come il caso di quel ragazzo diciottenne cresciuto in America da una coppia di lesbiche, note e apprezzate nell’ambiente intellettuale newyorkese, che sognava di frequente di correre nella notte con un branco di lupe. Nel suo sogno gli animali arrivavano a un fiume, nel quale si specchiavano, vedendo riflesso il proprio volto e il proprio corpo. Le lupe, la madre e le sue amiche, vedevano distintamente la propria immagine. Quando era lui, però, a specchiarsi nel fiume, vedeva solo un alone confuso. Era la sua immagine, sia corporea che psicologica, a essere confusa, perché non aveva avuto padre e il mondo maschile era stato solo parzialmente presente nella socialità selezionata dalla due donne. Ecco cosa rischiano i figli di un solo sesso: una personalità che non riesce a prendere una forma definita, perché l’altro è mancato.
Il giudice Ferrin Calamita
l’ha spiegato semplicemente, ma bene. E ora il re nudo cercherà di annullare la sua sentenza. Forse ci riuscirà. Ma una verità detta, e scritta, è difficile da cancellare dalla memoria collettiva.
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