NY, una finestra sul niente

Di Lorenzo Albacete
04 Ottobre 2001
Questa settimana, due miei amici che fanno i poliziotti a Washington sono venuti a New York per guardare la sfida di baseball Yankees vs. Baltimora e salutare un giocatore del Baltimora che ha annunciato il suo ritiro dopo la partita.

Questa settimana, due miei amici che fanno i poliziotti a Washington sono venuti a New York per guardare la sfida di baseball Yankees vs. Baltimora e salutare un giocatore del Baltimora che ha annunciato il suo ritiro dopo la partita. Hanno spiegato alle rispettive mogli che affrontavano questo viaggio come un gesto di patriottismo, poiché l’amministrazione di New York sta pubblicizzando in tutti gli Usa che il miglior modo per offrire un aiuto dopo la tragedia dell’11 settembre è quello di fare visita in città e spendervi i propri soldi (le mogli per la verità non erano esattamente persuase che fosse questa causa ad ispirarli, ma come la maggior parte delle persone che in questi giorni hanno idee diverse da quelle della maggioranza, si sono adeguate). Poiché sono due poliziotti, ai miei amici era permesso visitare il “ground zero”, il punto esatto dove si trovavano le Torri. Li ho incontrati poche ore più tardi, commossi in un modo che non si sarebbero mai immaginati. L’esperienza di vedere il disastro coi propri occhi è completamente diversa dal guardare le immagini alla televisione. La televisione rende tutto simile a un set cinematografico, elimina quella straordinarietà che «ti paralizza completamente», mi hanno detto. «È come un’immensa finestra sul nulla, come un buco nero. L’unica “realtà” rimasta è la puzza di cavi elettrici bruciati. Perfino l’aria è quasi del tutto assente, si fatica a respirare». Più tardi, siamo usciti a mangiare e abbiamo percorso Times Square. C’era quasi la solita folla di persone, molti giovani, i venditori ambulanti (bandiere di tutte le misure e di tutte le forme vendute ovunque); quasi ad ogni angolo distribuivano volantini che annunciavano la Seconda venuta di Cristo, gridando ad alta voce «Geeesù», ripetutamente, come in certi raduni pentecostali nel Sud degli Usa; turisti provenienti dalle vicine Westchester County, nel Connecticut, e dal New Jersey, molti con le programmazioni di Broodway in mano, erano in fila fuori dai ristoranti più famosi, mentre la maggior parte degli altri restavano vuoti; ovunque poliziotti, salutati dai passanti con un calore del tutto inusuale; sirene spiegate, automobili delle forze dell’ordine quasi una dietro l’altra. Ma in tutto questo frastuono, il silenzio, terribile, del buco nero a 50 isolati di distanza era più forte d’ogni rumore. Era ovunque, il silenzio, s’insinuava in ogni spazio, faceva guardare la gente verso nord con frequenza, come per assicurarsi che la via di fuga fosse ancora libera. A tre settimane del disastro, tutti cercano di riprendere la “vita normale”, fingendo d’essere forti, di comportarsi il più possibile come prima, ma sapendo per tutto il tempo che non è più la stessa cosa. E non per paura, tristezza o rabbia. Non è niente di questo. È solo la consapevolezza di un non-essere, di una perdita di energia, come se ci trovassimo a migliaia di miglia di quota, dove l’aria è molto, molto rarefatta e occorre molta energia per muoversi. Gli unici che sembrano muoversi con la solita energia, con una solida “forza di presenza”, sono i bimbi, che ancora ignorano come non molto lontano da qui ci sia quel buco, quella finestra sul niente.

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