Oppenheimer è tormentato da Dio, ma sceglie Prometeo

Recensione del film di Nolan che ha un po' (molto) a che fare con Vattimo, Nietzsche e soprattutto T. S. Eliot. Non è solo un film-processo al nucleare

Dio è morto, e da un po’ anche Woody Allen dice di non sentirsi tanto bene. Ma il dio morto non è né quello dei filosofi né il Dio dei credenti. Quando, ne La Gaia scienza (1882), scrisse «Gott ist tot! Gott bleibt tot!», Friedrich Nietzsche (1844-1900) era infatti già andato oltre. Oltre Dio? Sì, uccidendo la categoria della verità, senza la quale Dio non è più nemmeno pensabile. Lo sapeva bene Gianni Vattimo (1936-2023), morto anche lui. Con il dovuto rispetto che si deve ai morti (perché il culto dei morti è una delle stigmate della non belluinità dell’uomo), ma senza nemmeno incensare un uomo solo perché morto, Vattimo non poteva che morire. Dio è morto, e Vattimo vi ha gettato sopra un pugno di terra. La verità è morta, e Vattimo l’ha seppellita.

Come dunque sopravvivere oltre? La morte di Vattimo sta alla morte della verità come l’impazzimento fisico-intellettuale di Nietzsche sta all’insostenibile pesantezza della speculazione moderna, lungo una parabola che dal nominalismo arriva ad abbracciare il cavallo del filosofo tedesco a Torino, il 3 gennaio 1889.

Tutto il mondo è palcoscenico

L’affresco più rotondo di tutto questo lo offre Oppenheimer di Christopher Nolan. Film celebratissimo, e a ragione, ma per le ragioni sbagliate. Lo spettatore, persino il critico, pensano di accomodarsi in sala per vedere scorrere la biografia del padre della bomba atomica, per assistere a un film-processo al nucleare, addirittura per sentirle cantare chiare al maccartismo (che comunque aveva ragioni abbondanti). Per nulla.

Con Oppenheimer, Julius Robert Oppenheimer (1904-1967) e i funghi atomici non c’entrano. Gli attori, migliori anche di se stessi, orchestrati sinfonicamente dal regista, si muovono infatti dentro la frase più usata e usurata, e forse meno compresa, di William Shakespeare (1564-1616), «tutto il mondo è un palcoscenico»: una frase palindroma per dire che un palcoscenico è tutto il mondo. Chi scrive, sfrutta. Platone lo fece con Socrate non certo per stenografarne la saggezza, Shakespeare con Giulio Cesare, tutti gli Enrichi e tutti i Riccardi dei suoi drammi storici non certo per farne biografie.

Il mito frainteso di Spartaco

Nolan si è imbattuto in un libro, American Prometheus: The Triumph and Tragedy of J. Robert Oppenheimer, pubblicato nel 2005 da Kai Bird e Martin J. Sherwin, che l’anno dopo ci hanno vinto il Pulitzer. Garzanti lo ha pubblicato in italiano quest’anno come Robert Oppenheimer, il padre della bomba atomica. Il trionfo e la tragedia di uno scienziato, ma nella traduzione del titolo si è smarrito il perché della prima scena del film, che è uguale all’ultima (per un’idea di eterno, o solo di non-finito o di ciclicità, visti i cenni alle culture orientali presenti nel film), si è perso il gancio che tira lo spettatore dentro alla storia e si è disperso il mito greco più frainteso di tutti per colpa dei marxisti.

Come lo schiavo Spartaco, eroe dei comunisti tedeschi nella Prima guerra mondiale suo malgrado, Prometeo ci viene normalmente spacciato come il superuomo nietzscheneggiante che contesta gli dèi gelosi, ma in realtà è solo un disobbediente alla legge divina suprema, esattamente come Adamo ed Eva il cui peccato non è certo quello di avere rubato un frutto a un contadino taccagno.

La terra insterilita di Eliot

Ora, in quel libro Nolan trova T.S. Eliot (1888-1965). Ancora Eliot, così presente anche nel film, pure esso palindromo sin dal titolo, Tenet (2020), dove il poeta anglo-americano s’incrocia (espressione non casuale) al mistero sublime del quadrato magico. Nolan non riesce a scollarsi di dosso Eliot. Grande sarà stata la sua sorpresa nell’apprendere dal libro che Eliot era fra i poeti preferiti di Oppenheimer, in specie The Waste Land (1922) ‒ e nel film lo si vede leggerlo ‒, cronicamente mal tradotto come «La terra desolata». In realtà è la «terre gaste» dei poemi medioevali (l’inglese moderno «waste» viene dal francese antico) che per via trobadorica arrivano alla Divina commedia del «paese guasto». Ebbene, la terra insterilita di Eliot è la modernità che avvizzisce non sapendo più ricuperare la verità del Santo Graal. Oppenheimer e Vattimo si incontrano in questo deserto, quello di Los Alamos.

Niente biografia, insomma, o film storico. Nolan sta a Oppenheimer come l’Amleto sta al principe delle Gesta Danorum di Saxo Grammaticus o al Macbeth, al re Lear e al Cimbelino delle Holinshed’s Chronicles (1587) da cui Shakespeare li ha tratti. Maschere, cioè personificazioni, come le chiamava il teatro greco, sul proscenio della storia; occasioni raccolte da Nolan per scrivere un’altra pagina eliotiana di cinema, cioè di racconto e simbolo, sull’impero alla fine della decadenza, direbbe il Paul Verlaine (1844-1896) di cui Eliot cita un verso proprio in The Waste Land. Così è, se vi pare, e così finirà il mondo senza più verità: Oppenheimer è un affresco verista di questa colossale natura morta.

La non-verità

Tutti nel film mentono e fingono. I protagonisti del Progetto Manhattan prendono per vera una messa in scena; Los Alamos nel deserto è una città posticcia che calpesta i morti; Katherine Puening, cioè la signora Oppenheimer (1910-1972), si presta alla doppia vita del marito; la politica è senza verità; la scienza è priva di verità; e il presidente Harry Truman mente sapendo di mentire. Quanto a Lewis Strauss, è il grande burattinaio di una ennesima bugia, colossale e titanica come la bomba atomica, ordita contro Oppenheimer. Eppure anche Oppenheimer è ambiguo, doppio, indecifrabile. Solo il generale Leslie Groves e lo scienziato David L. Hill sembrano aprire spiragli di verità, ma l’illusione dura poco.

Durante un’audizione privata, orchestrata da Strauss, quindi menzognera, Groves sembra portare luce in questo buio totale. Confessa candidamente che, con il senno di poi, a suo tempo non avrebbe concesso a Oppenheimer (più o meno simpatizzante comunista) il nulla osta di sicurezza per trattare informazioni classificate. Ma subito torna nella morta gora relativista aggiungendo (mentre nessuno lo ascolta più) che non lo avrebbe però concesso a nessun altro del Progetto Manhattan. E Hill, che è quello che alla fine spariglia tutto, facendo naufragare le fedifraghe aspirazioni ministeriali di Strauss, torna ennesima pedina della non-verità, contribuendo, con la propria azione buona, ad alimentare il male di un Oppenheimer eroe e dell’atomica virtuosa. Come se persino il bene senza verità producesse il male.

Il distruttore dei mondi

L’intera vicenda della bomba è del resto un azzardo assurdo, una scommessa, un salto nel vuoto. Potrebbe incendiare il mondo, scimmiottando Dio. Oppenheimer battezza la detonazione del primo ordigno atomico, nel deserto del New Mexico, il 16 luglio 1945, «Trinity» dal 14esimo degli Holy Sonnets (1633) del poeta metafisico inglese John Donne (1572-1631), il poeta che Eliot preferisce e che Oppenheimer ama. Perché Oppenheimer è tormentato da Dio, ma sceglie Prometeo.

Oppenheimer è anche attratto, ponderatamente però, con il bilancino del don Ferrante manzoniano, da quel complesso di credenze e riti che gli occidentali chiamano induismo. Legge il sanscrito e dal testo sacro della Bhagavadgita estrae una frase che in un documentario trasmesso dalla NBC nel 1965 ricorda avere pronunciato davanti alla deflagrazione sperimentale: «Ora sono diventato la morte, il distruttore di mondi». Oppenheimer traduce così, ma l’originale dice: «Io sono il tempo, il grande distruttore dei mondi», e a parlare è «Dio, la Persona Suprema».

Redimere il tempo

Il tempo è ancora una verità eliotiana ‒ Eliot conosceva l’induismo, anche grazie al suo professore ad Harvard, Irving Babbitt (1865-1933), e da esso trae materiali anche per The Waste Land ‒ e la traduzione tradita un’altra mistificazione oppenheimeriana. Nel film la frase si sovrappone a un amplesso fra il padre della bomba atomica e la sua amante comunista, Jean Tatlock (1914-1944), in una sin troppo evidente allusione al connubio perverso fra eros e thanatos, di cui Eliot ebbe terrore. Del resto la Tatlock, depressa e abbandonata, morirà suicida.

La scena finale, che ripete quella iniziale annullando e al contempo estendendo il tempo, è l’esplosione possibile di un mondo devastato dagli ordigni nucleari più terribili che mai si possano immaginare, metafore di come finisce senz’altro il mondo senza verità. La bomba, la notizia-bomba è che non c’è speranza in un mondo senza né più la verità né più il desiderio di essa, dal momento che, insegnava Vattimo, anche solo domandarsi cosa sia la verità è una domanda sbagliata. Ma l’Eliot di Tenet e di Oppenheimer, che costantemente si interrogano sul tempo come possibilità, è tornato per dirci, nel Mercoledì delle ceneri (1930), che non è ancora successo. Che, nella verità, si può ancora «redimere il tempo».

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