Pace. Cioè riconoscere l’altro

Il popolo palestinese non è assimilabile in toto ai terroristi di Hamas che hanno usato la violenza più cieca contro gli israeliani

Sderot, Israele, colpita da un razzo lanciata dalla Striscia di Gaza, 17 ottobre 2023 (Ansa)

Una mia carissima amica, che abita a Varese da molti anni ma è di origini palestinesi e ha tutt’ora la famiglia nelle terre contese da quasi ottant’anni, mi racconta il vivere quotidiano dei suoi parenti. Una narrazione che non può prescindere dal fatto che il loro essere cristiani li pone come soggetti che sono comunemente, guerra o non guerra, discriminati e malvisti da più fronti.

Nonostante questo, mi parla di un’esperienza dove la convivenza tra palestinesi e israeliani, tra ebrei, cristiani e musulmani non è una chimera impossibile tra i popoli, ma un fatto di ordinaria normalità. La gente comune vuole la pace, sottolinea con emozione, pur sapendo di dire qualcosa di assolutamente semplice, quasi banale. La differenza è dirlo dal cuore nell’Europa oppure dalla striscia di Gaza.

Questa parola così semplice, “pace”, non può che essere il punto di partenza per qualsiasi altra riflessione su quello che sta accadendo in Medio Oriente. Le famiglie non vogliono il terrorismo, il massacro che abbiamo visto. Desiderano una vita quotidiana che gli permetta di amarsi, di fare figli, di coltivare le proprie sicurezze sociali ed economiche. Il loro cuore umano non è differente dal nostro, è fatto di piccole azioni quotidiane, che noi abbiamo scordato, perché immersi nell’iper-modernità liquida di baumiana memoria. Una scrittrice dell’epoca contemporanea, Paola Turroni, che usa la forma poetica per esprimere le emozioni dell’umano sentire, in un libro intitolato Il Mondo è vedovo (titolo tratto da una citazione di Amelia Rosselli), scrive: «Ci sono gesti che bisogna continuare a fare/ chiudere finestre, tostare il pane, legarsi/ il fazzoletto alla nuca/ non c’è altro modo che i gesti/ per fare i vivi».

Chi abita nella Striscia

Ecco i gesti quotidiani: il lavoro per sfamare la famiglia, preparare il buon cibo per la sera, custodire la crescita di figli e porre cura alla fatica degli anziani, sono l’espressione della vita, buona o cattiva che sia.

Ora, proviamo a metterci nei panni di uno dei due milioni e mezzo di palestinesi che in questo momento sono imprigionati a Gaza, senza vie d’uscita, perché nonostante gli sforzi internazionali l’unico corridoio utilizzabile, che è quello di Rafah a sud con l’Egitto che è stato aperto e subito richiuso, di fatto, rimane una barriera insuperabile. E viene da chiedersi, anche qualora venisse oltrepassato, chi potrebbe accedervi. Forse i dodici cooperanti, con passaporto italiano, ma non credo certo tutti quelli che hanno, come passaporto, la carta “verde” emessa dall’autorità nazionale palestinese, che vale quanto uno strofinaccio troppo sporco per essere riutilizzato.

Io credo che ognuno di noi se provasse ad immedesimarsi nelle condizioni di vita ordinarie di quegli uomini e di quelle donne che abitano la striscia di Gaza, non potrebbe ignorare le ragioni disperate che ci chiedono di guardare a loro come si guarda ad un nostro figlio.

La vita di un palestinese

Mi ha colpito leggere il racconto di un cooperante lombardo, in quelle terre da trent’anni, che su una rivista raccontava la propria situazione a Gaza. Ebbene egli diceva: «[….] sono ancora vivo, ma non sto bene. L’ultima notte è stata molto dura, i bombardamenti non si sono fermati, non c’è luce, non c’è elettricità, non c’è acqua, e non si dorme. Siamo molto stanchi e depressi» (frasi di dieci giorni fa). Fino al tragico missile che ha colpito l’ospedale Battista di Gaza dove si erano rifugiati in 4.000 credendolo un posto sicuro e sono morti in 500.

Penso proprio che non si possa assistere in modo umano all’evoluzione tra Israele e Palestina ignorando la posizione di chi oggi è costretto fisicamente a rimanere nella striscia di Gaza. Questo vale per i palestinesi che vivono lì, così come per tutti gli occidentali legati a quei territori. Questa considerazione non ha solo lo scopo di richiamare il diritto naturale di tutti gli uomini, di tutti i popoli, e quindi anche di tutte le persone palestinesi, di vedersi riconosciuti i propri diritti elementari. Non è inutile o lapalissiano ricordare che una vita è una vita, una persona è una persona. Accettare, anche implicitamente senza affermarlo, che la vita di un palestinese valga meno di quella di un israeliano o di un europeo è il più terribile dei delitti.

I terroristi di Hamas

La storia insegna che dietro questa degenerazione si nascondono i crimini più atroci contro l’umanità. Non ci può essere una prospettiva d’uscita dalla spirale dell’odio se non si comincia a riconoscere l’altro, e la sua alterità, affermando il diritto a esistere e a vivere in pace. Questo è un tema che interroga il cuore e la posizione di ciascuno di noi, prima ancora dei rapporti tra i popoli e gli Stati. Riguarda il sottoscritto e tutti coloro che, come me, riconoscono legittimo il diritto di Israele di difendersi dalle atrocità e dalla barbarie, che non vanno mai sminuite ma che non implicano il diritto alla reazione “totale” che massacrerebbe un popolo.

Il popolo palestinese non è assimilabile in toto ai terroristi di Hamas che hanno usato la violenza più cieca contro il popolo israeliano. Non possiamo confondere la Palestina con Hamas. Qui sta il punto di equilibrio che è necessario trovare per avviare seri accordi diplomatici. Ad oggi, non possiamo negare che assieme alle armi e alle bombe siano in campo anche le forze della diplomazia, che qualche risultato lo hanno pure ottenuto, per esempio, rallentando quello che era stato annunciato come un inesorabile e imminente attacco di terra da parte di Israele.

Far vincere la pace

Questo significa che ci sono più soggetti in campo. Non solo quelli delle armi, della violenza, dei missili, e dei bombardamenti, ma anche quelli della parola, del ragionamento che cerca soluzione diplomatiche e pacifiche alle tensioni. Come ci ha ricordato il cardinale Pizzaballa in campo c’è anche la forza misteriosa ma reale della preghiera. Per questo ha senso aderire alle iniziative di raccoglimento che sono proposte perché la storia ci ha insegnato, tante volte, che accadono fatti che sono al di fuori delle mere dinamiche umane, come la caduta del muro di Berlino e il crollo dell’impero sovietico senza spargimento di sangue.

Riconoscere che queste forze sono in gioco e riconoscere le capacità inesorabile di costruire la pace nel cuore di ognuno di noi, come primo e più forte antidoto alla guerra, è il punto di partenza per costruire una prospettiva differente, far vincere la pace! Anche per chi lancia missili che sembrano diretti innanzitutto proprio contro questo obiettivo.

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