“Paradise”, il mondo che tutti sognano è un incubo (e non è così lontano dalla realtà)

Il film in cima alla classifica di Netflix racconta una civiltà dove l’utopia del vivere per sempre è finalmente realizzata. Ma solo per i ricchi. Ai poveri non resta che “donare“ i propri anni in cambio di soldi

Se vale già per l’utero, potrebbe valere anche per il tempo. Chi non ha risorse è disposto a tutto, anche a privarsi di anni della propria vita per darli, in cambio di soldi, a chi ha già tutto tranne che una soluzione per sfuggire alla morte. Questa è l’ipotesi del film Paradise, pellicola di fantascienza made in Germania. Uscito a fine luglio su Netflix, è balzato in fretta in cima alla classifica della piattaforma.

La vita come merce

I poveri invecchiano per far ringiovanire i ricchi. Se questa è fantascienza, non lo è affatto la strategia con cui l’immaginaria startup biotech Aeon va a procacciarsi cavie a cui sottrarre anni di vita per poi trasferirli ad altre persone grazie a una tecnologia rivoluzionaria. Conosciamo bene una certa retorica del dono, capace di imbellettare una mera pratica di sfruttamento commerciale e spacciarla per solidale e spontaneo altruismo. Max, il protagonista del film, si occupa appunto di donazioni per conto della Aeon e nella prima scena è all’opera per estorcere 15 anni di vita a un adolescente, convincendolo di quanto sia un atto di vera premura invecchiare in cambio di una somma di denaro che finalmente permetterebbe alla sua famiglia di ottenere un visto di accesso nel paese e di condurre una vita senza più lo spettro della povertà. Lo mette con le spalle al muro, ma con la carezza viscida di chi rigira la frittata usando le parole giuste: chiama eroico donatore il topo in gabbia. «Quei fessi non hanno altro che le loro vite», confesserà poi Max.

Si oppone a questo tipo di sfruttamento il gruppo Adam, una fantomatica organizzazione terroristica il cui motto è: la vita non è una merce. È un grido che si staglia sullo sfondo di una scena ancora più subdola e critica, perché una volta sdoganata la follia del dono del tempo diventano seducenti altre ipotesi tremende. Vengono a galla soluzioni apparentemente provvidenziali a questioni perennemente irrisolte, come il sovraffollamento delle carceri. Basta commutare la pena detentiva in una sottrazione di anni ai condannanti. (E togliere molti decenni di vita a un assassino, in fondo, è una perifrasi della pena di morte). Per chi non può pagare un mutuo o gli studi, ecco che vendere un certo numero di anni della propria vita può assomigliare tanto a una risorsa di cui godere e ringraziare.

L’illusione di sconfiggere la morte

Il dottor Frankenstein dietro la società Aeon è Sophie Theissen, una madre che ha perso una figlia affetta da progeria, malattia che causa un invecchiamento precoce. C’è sempre una ferita non rimarginata dietro le deviazioni più tremende. L’ossessione comincia quando, anziché stare disarmati di fronte al tema della creaturalità e al senso della vita, si comincia a nutrire il mostro, l’illusione di poter sconfiggere l’obiezione della morte. «Se Mozart non fosse morto a 35 anni, di quanti altri suoi capolavori avrebbe potuto godere il genere umano?». Sophie radica il suo impero commerciale su questo tipo di domande allettanti. È un’arma diabolica che insinua una deduzione pericolosissima: la durata come criterio di felicità. Più tempo vivo, più ho a disposizione occasioni per accumulare piacere, successo, gioia. (Nella Divina Commedia Dante ha difeso la visione opposta: dentro ogni evento presente viene data all’anima l’occasione di riconoscere e aderire alla sfida di Chi ha promesso all’uomo una felicità irriducibile ed eterna, attraverso e oltre le temporanee ombre terrestri).

Ma senza l’aldilà, non resta che protrarre il più possibile l’aldiqua. È proprio questo l’amaro surrogato di cui si accontenta chi ha perso per strada la certezza dell’eternità. Fin qui nessuno spoiler sul film, perché tutta la trama ruota attorno a una drammatica avventura in cui sono coinvolti Max e sua moglie a partire dall’orizzonte appena tracciato. Che non è poi così fantascientifico, considerando quanto sia capillare la narrativa della longevità e del ringiovanimento in tanti nostri contesti di vita.

Longevità al posto dell’eternità

Una delle ipotesi interessanti di Paradise è che questa smania di bloccare il tempo o dilatarlo il più possibile sia legata a doppia mandata con l’ansia ecologica e climatica. Se si riesce a ingannare la morte e a vivere sempre di più, magari rimanendo giovani, allora la terra deve essere un paradiso e non una discarica. Non è esattamente la mossa umanitaria di chi ha a cuore il creato, più che altro è la richiesta di un cliente che vuole prenotare il suo soggiorno in un resort deluxe. Ha pagato per esserci e per rimanere.

Come spesso accade, la sintesi più lungimirante la offre il genio di Chesterton: il miglior sistema per distruggere un’utopia è realizzarla. Sostituire l’idolo della longevità a quello dell’eternità trasforma in un incubo anche la vita sulla terra. E l’incubo è proprio quello di attaccarsi con le unghie e coi denti all’illusione che un paradiso possa esistere in terra e sia la realizzazione dei nostri desiderata. Non è un miraggio gratuito, anzi è la strada più sicura e veloce per arrivare a un’autodistruzione per eccesso di pretese.

Forse l’implorazione meno fantascientifica e più urgente per la nostra attualità è quella che pronuncia Max nel mezzo della sua prova più dolorosa: «Ci dev’essere un altro modo perché tutti non prendano quello che vogliono».

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