«Una società che estende costantemente, alla cieca, il campo del possibile affonda inevitabilmente in un mondo in cui più niente è reale, nel virtuale assoluto», notavano già nel 2003 Benasayag e Schmit
Peter Paul Rubens, Il supplizio di Prometeo (particolare), 1618, Philadelphia Museum of Art, Philadelphia
Il pensiero classico considerava massima colpa dell’uomo la sua ύβρις, la tracotanza, la tendenza distruttiva a varcare l’invarcabile, ad avere un rapporto “non giusto” con il limite, il dato. In tutte le civiltà antiche, la scomoda relazione con “ciò che non si può fare” ha segnato il criterio originario su cui costruire l’intero sistema culturale, civile e sociale della convivenza umana: le grandi narrazioni hanno cercato di spiegare il “disordine” di questa situazione costruendo miti di grande acutezza, da Prometeo ad Adamo ed Eva.
Da qualche secolo le cose sono cambiate. Non è cambiata la condizione: è cambiata la sua narrazione.
Due acuti psicanalisti e psicoterapeuti, Miguel Benasayag e Gérard Schmit, hanno pubblicato nel lontano 2003 un libro molto interessante su questo argomento, L’epoca delle passioni tristi: «Una società che rende pensabili tutti i possibili è condannata a scomparire».
Il sacro non è arbitrario
Sembra di tornare di balzo alle vecchie culture, costruite su pr...