
Nel Pd ancora logiche da nomenklature impazzite. All’Italia servono due grandi partiti popolari
Vedremo nelle prossime ore se l’apertura propiziata da Giorgio Napolitano con le commissioni dei saggi reggerà dopo l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Comunque quel che si è prodotto sinora è solo uno spiraglio: le proposte elaborate dai “saggi” sono generalmente interessanti, servono però ad aprire un (fondamentale) dialogo più che a concluderlo. D’altro verso è un mezzo miracolo che gli accordi siano proposti ai partiti che ci sono e non piovano dall’alto (da Bruxelles o da Washington, da Berlino o dalla Goldman Sachs). E così sono centrali gli inviti a riformare la ormai inadeguata Costituzione del ’47, con tanto di proposte sperimentali (la commissione redigente aperta agli esterni) per tentare di superare le impasse delle bicamerali degli ultimi trent’anni.
La situazione però resta drammatica: un anno e mezzo di governo tecnico ha reso più fragile una democrazia già in sofferenza. A un forte movimento di protesta che da noi assomma posizioni di ribellismo lepeniano a quelle dei centri sociali, si accompagna una progressiva disgregazione del ceto politico che ne riflette una analoga della società. Il fenomeno più rilevante è in corso nel Pd, dove le posizioni interne si compongono e scompongono secondo logiche da nomenklature impazzite. E analoghe tendenze si esprimono nella lista Monti, nella Lega Nord, qui e là tra i grillini, mentre il Pdl è più unito perché ancora quasi sotto tensione elettorale. Anche dalle forze sociali vengono segnali alternati: positiva la funzione che svolge la Cisl col farsi carico di formulare proposte di riforma dello Stato (oggi questione principale) senza egoismi di organizzazione. Altre associazioni, mentre segnalano opportunamente le condizioni travagliate della nostra economia, non si assumono fino in fondo un ruolo costruttivo: il che è ancora più sbagliato da parte di chi con gli appelli alla fretta ha già contribuito a far nascere il fallimentare governo Monti.
Riferimenti condivisi e culture comuni
Per fare non solo presto ma anche bene, si tratta di aiutare – come hanno fatto i saggi – a selezionare le proposte urgenti, a definire le scelte strutturali irrimandabili (ma che chiedono più tempo) pena lo sfascio finale dello Stato e a trovare una metodologia per affrontare le questioni più complesse o divisive che consenta il dialogo tra le forze più rilevanti (pure gli sbarellati grillini devono essere chiamati a dare il loro contributo, anche perché protagonisti di una protesta sinora mirabilmente non violenta) isolando chi di volta in volta non partecipa con spirito costruttivo ma si concentra solo sugli affaracci propri.
Questione fondamentale – come accennato anche dai “saggi” – è quella di ridare vitalità a forze politiche che consentano alla società di rappresentarsi. Come in tutte le grandi democrazie europee (meno in quelle americane, disciplinate da un presidenzialismo un tempo al Centro-Sud deplorato come “peronista” e oggi invece fondamentale nella rinascita di Stati come quello brasiliano, cileno, messicano), è probabile il permanere di partiti di pura protesta (tipo lepeniani o Piraten) o di nobile testimonianza (le formazioni “liberali”), ma è necessario, sistemando la Carta, avviare anche un processo – da consolidare pure con scelte istituzionali (per questo sarebbe preziosa una qualche forma di presidenzialismo) e di sistema elettorale – di stabilizzazione di due grandi forze popolari a destra e a sinistra. Ppe e Psoe, Tory e Labour, socialisti e gollisti, Cdu-Csu e Spd: così funzionano i grandi Stati europei e così deve avvenire anche in un’Italia dove le originalità (tipo fascismo) sono da aborrire, non da auspicare.
Fabrizio Barca ha fatto bene a dire che il primo obiettivo del Pd deve essere definirsi compiutamente come partito, uscendo dalla logica di confederazione di nomenklature che ancora lo caratterizza. Non sarebbe male se anche Matteo Renzi spiegasse cosa vuole che unisca i democratici, liberi poi di dividersi su questo o quel punto ma all’interno delle caratteristiche di una comunità, pur articolata, tale da rappresentare un’area della società. E simili “confini” possono nascere solo da una cultura politica con ampi riferimenti condivisi.
A destra, dove tante nomenklature si sono suicidate (da Gianfranco Fini a Pier Ferdinando Casini), si è aperto un dibattito sulla cultura politica del Pdl con interventi di Vittorio Feltri, Paolo Guzzanti, Fabrizio Cicchitto, Mariastella Gelmini: è evidente come a un polo che di nuovo deve ambire a rappresentare oltre il 40 per cento degli italiani, non possa bastare il fronte d’emergenza messo su – con eccezionali risultati peraltro – per il voto del 2013. Si tratta di ripensare a una forza ampia che mantenga quello straordinario rapporto popolare che Berlusconi riesce a costruire nelle campagne elettorali, ma lo elabori articolando interessi, umori e “storie” secondo una pluralista “cultura” per larghi tratti unitaria: la sola in grado di fondare una grande comunità politica come deve diventare quella liberalpopolarconservatrice italiana.
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