Peggio dell’Iraq?

Di Gian Micalessin
31 Agosto 2006
Le trame iraniane, i fedelissmi di Damasco e l'impazienza di Israele. Il Libano si annuncia più pericoloso di Nassiriya

Beirut
La missione italiana in Iraq secondo alcuni è stata azzardata, sanguinosa, costosa, impossibile e alla fine inutile. Chi ha preteso il ritiro da Nassiriya dovrebbe spiegare perché il Libano sia diverso. Partiamo dall’antefatto. Nel settembre 2003 i nostri soldati arrivano in Iraq a conflitto concluso. Nella provincia di Diqar non esistono in quel momento situazioni di scontro aperto. La zona a prevalenza sciita è appena uscita da una dittatura e da una guerra. Apparentemente i nostri soldati dovevano solo fronteggiare la difficile situazione etnico sociale e garantire lo sviluppo democratico. Come sia finita è risaputo, ma il punto di partenza era sicuramente meno complesso del ginepraio libanese in cui stiamo per posare piede. La situazione del Libano del Sud è il frutto di un conflitto trentennale. Dalla metà degli anni Settanta ad oggi l’egemonia di Hezbollah si è sovrapposta prima a quella palestinese poi a quella dei fratelli sciiti di Amal. Il tutto nell’ambito di un’occupazione israeliana e di uno scontro aperto con le forze cristiane dell’Esercito di Liberazione del Sud, durati fino al 2000. La situazione geopolitica dell’Iraq nel 2003 sembrava sostanzialmente vergine, ancora da plasmare politicamente e militarmente. Ma in Libano non tener conto del passato è follia. L’influenza di Teheran in uno dei pochi triangoli mediorientali dove la fede sciita è egemone inizia alla fine del conflitto iraniano-iracheno. La Repubblica islamica dà il via in quegli anni ai progetti di grande potenza regionale. L’appoggio agli sciiti del Sud del Libano si sviluppa lungo l’asse che parte da Beint Jbeil, attraversa la Siria, raggiunge Najaf nel Sud dell’Iraq e si congiunge con Qom, in Iran. L’allora quindicenne Hassan Nasrallah, arrivato alla metà degli anni Settanta alla scuola teologica di Najaf, inizia la sua carriera con la benedizione dell’ayatollah Mohammed Baqir Al Sadr, zio dell’odierno agitatore iracheno Moqtada Al Sadr. Forte di quella benedizione Nasrallah studia alla scuola religiosa dell’imam Montazeri a Qom. Poi, grazie all’investitura della suprema guida iraniana Ali Khamenei, viene nominato, a soli 34 anni, segretario generale di Hezbollah. Chiunque metta piede nel Sud del Libano con l’intenzione di disarmare il Partito di Dio o di ridimensionarlo politicamente deve esser consapevole di lavorare in diretta contrapposizione con la potenza regionale iraniana, potenza che nel Sud dell’Iraq, terminato il ventennale giogo di Saddam Hussein, ha impiegato meno di due anni per assumere il controllo del territorio sfruttando le alleanze con i gruppi sciiti. Nel Sud del Libano il contingente internazionale parte con uno svantaggio di almeno vent’anni.

La clessidra di Gerusalemme
L’incombere di Israele al confine meridionale alza gli ostacoli di una già non facile situazione. Per lo Stato ebraico la presenza di un esercito armato e addestrato dalla Repubblica islamica lungo la propria frontiera settentrionale rappresenta non un semplice pericolo, ma una minaccia esistenziale. La dottrina strategica adottata fin dal 1948 impone a Israele di sfruttare la superiorità militare per affrancarsi preventivamente da chiunque minacci la sua sopravvivenza. Ma ora quella superiorità, come hanno dimostrato 34 giorni di guerra, sta rapidamente scemando. In questo contesto il via libera israeliano alle Nazioni Unite e al contingente internazionale è solo un intermezzo per recuperare energia politica e iniziativa militare dopo un conflitto partito con il piede sbagliato. Chiunque metta piede in Libano farà i conti con la clessidra di Gerusalemme: il contingente potrà proseguire fino a quando contribuirà politicamente o militarmente a ridimensionare l’influenza iraniana nel paese, ma nel momento in cui la missione entrerà in stallo Israele non esiterà a ridiscendere in campo rivendicando la necessità di garantire la propria sicurezza.
Se gli scogli geo politici e strategici sono enormi, quelli pratici e tattici non sono da meno. Dipendere dal raffazzonato esercito libanese per conseguire il disarmo di Hezbollah è già di per sé una garanzia di fallimento. I mezzi antiquati e le ridotte risorse delle truppe di Beirut sono però ben poca cosa rispetto ai freni imposti da una gerarchia militare strettamente allineata con Damasco. Il presidente libanese Emile Lahoud, capo supremo di tutte le forze armate, ha già ribadito la sua fede filosiriana, definendo «una vergogna» il disarmo dell’«unica forza del mondo arabo capace di contrapporsi a Israele». E il generale cristiano Michel Suleiman, attuale capo di stato maggiore, è un altro fedelissimo di Damasco designato, a suo tempo, da Jubran Koreyah, potentissimo portavoce del defunto presidente Hafez Assad. Ammiratore ed estimatore del Partito di Dio, Suleiman ha spesso definito Hezbollah «la miglior arma intelligente» contro Israele.
Sul terreno i nostri soldati dovranno fare i conti con un intricato susseguirsi di valli e gole carsiche dove la nuda roccia si alterna a un’insidiosissima e impenetrabile boscaglia. Un terreno impossibile da controllare. Un terreno dove la superiorità israeliana, garantita dai tank Merkava, è stata sistematicamente annullata da squadre di tre o quattro uomini armati di missili anticarro. Su quel terreno Hezbollah combatte da più di vent’anni e ha addestrato decine di migliaia di potenziali combattenti. Nei bunker scavati in quella vallate sono già scomparsi missili, armi e munizioni. I guerriglieri hanno smesso la divisa. Prima di riuscire a disarmare Hezbollah bisognerà riuscire a trovarlo. Poi convincere i soldati libanesi ad affrontarlo.
Nella migliore delle ipotesi la missione non raggiungerà alcuno degli obiettivi. Nella peggiore verrà preliminarmente sospesa dal ritorno in campo di Israele. Se il vantaggio rispetto all’Iraq è che i nostri soldati torneranno a casa senza troppi danni, allora il successo è quasi garantito. Ma se qualcuno pensa veramente di poter contrapporsi a Hezbollah e all’Iran per restaurare la sovranità di Beirut nel Sud del paese, allora l’avventura irachena rischierà veramente di venir ricordata come una passeggiata.

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