
Il caso della tennista cinese Peng Shuai. Non è #MeToo, è regime

Dov’è finita Peng Shuai? È la domanda che si fanno in tanti, da quando la tennista cinese, ex numero uno del mondo nel doppio, è sparita dopo aver accusato a inizio mese di stupro una delle figure più importanti del Partito comunista cinese. I giornali nostrani, come Repubblica, parlano superficialmente di #MeToo in salsa cinese. Ma il caso di Peng rivela molto di più.
Le accuse di stupro
In un post molto lungo pubblicato il 2 novembre (e subito censurato) su Weibo, il Twitter cinese, la 35enne Peng ha accusato il 75enne Zhang Gaoli di averla stuprata nel 2018. Zhang non è un funzionario comunista qualunque, ma uno dei pochi che è riuscito a scalare tutti i gradini del potere: dopo essere stato segretario di Partito dello Shandong, è stato promosso a guida della sezione di Tianjin fino a diventare dal 2012 al 2017 membro del Comitato permanente del Politburo, la cerchia ristretta di sette persone che comanda di fatto la Cina. A livello di governo, è stato anche vicepremier dal 2013 al 2018.
Nel suo post, Peng ha rivelato di avere avuto una lunga relazione con Zhang alle spalle della moglie, troncata dal papavero comunista per evitare scandali quando è stato elevato sul gradino più alto del potere. Dopo essere scomparso per anni, nel 2018, quando era già in pensione, Zhang si rifece vivo, invitandola a giocare a tennis insieme alla moglie. Dopo la partita, portò a casa sua Peng, dove la stuprò mentre qualcuno faceva la guardia alla porta: «Abbiamo fatto sesso come dieci anni prima. Ma quel pomeriggio io non volevo e ho pianto dall’inizio alla fine».
Il post di Peng Shuai
Da quanto scrive, Peng sembra essere consapevole che la sua denuncia pubblica non porterà a nulla, ma pare non riuscire più a tenere dentro di sé un enorme fardello:
«Io sono un’ipocrita. Io ammetto di non essere una buona donna, infatti sono una pessima donna. (…) L’innamoramento è una cosa complicata da spiegare chiaramente. (…) Non ti ho mai usato per i tuoi soldi o il tuo potere. (…) Quante volte ho pensato: sono ancora un essere umano? Pensai di essere una creatura senz’anima, ho mentito ogni giorno. Non avrei dovuto nascere, ma non ho il coraggio di morire. (…) Tu hai giocato con me e poi mi hai scaricata. (…) Io non ho prove a conferma di ciò che dico: nessun audio, nessun video. Ho solo la mia memoria. So che tu, importante come sei, non sei spaventato. Ma non mi importa se queste mie parole sono come un uovo che colpisce una roccia o se io sono come una falena che vola verso le fiamme, io sto dicendo la verità».
La protesta del tennis e l’email sospetta
Dalla pubblicazione del post, Peng è sparita. Domenica l’Associazione di tennis femminile (Wta) ha contattato il governo cinese per capire dove fosse finita la donna. Pochi giorni dopo la Cgtn, l’emittente internazionale della tv pubblica statale cinese Cctv, ha svelato una email sospetta (eufemismo) firmata da Peng e inviata alla Wta: «Ciao a tutti, sono Peng Shuai. Quelle accuse di violenza sessuale non sono vere. Non sono scomparsa, non sono in pericolo. Mi sto riposando a casa e sto bene. Spero di poter promuovere il tennis cinese con voi se ne avrò l’opportunità in futuro. Grazie per il vostro interessamento».
Il sospetto è che l’email sia stata scritta sotto dettatura o minaccia oppure che sia stata scritta direttamente da funzionari del regime. Mentre alcune star del tennis internazionale, come Novak Djokovic, hanno lanciato l’hashtag #WhereIsPengShuai, il New York Times ha fatto pressione sul Comitato olimpiaco internazionale per boicottare la Cina.
La Wta dal canto suo si è detta pronta a non patrocinare gli eventi in programma in Cina nel 2022 se prima non uscirà la verità su Peng. Per l’Associazione del tennis femminile boicottare Pechino significherebbe perdere decine di milioni di dollari. E per quanto sia lodevole la forte presa di posizione, il modo in cui in passato grandi marchi sono capitolati davanti al regime non fa ben sperare in merito all’esito della protesta.
Il #MeToo non c’entra niente
Che Peng sia in pericolo non c’è alcun dubbio. Il regime non vede di buon occhio coloro che gettano in pasto al pubblico le magagne degli alti funzionari del Partito, soprattutto se di natura sessuale. Per aver pubblicato libri scandalistici sui pezzi grossi del Pcc e aver messo in cantiere un titolo sulla vita amorosa del presidente Xi Jinping, cinque librai di Hong Kong sono stati rapiti e fatti sparire dal regime nel 2015. Uno di loro, Gui Minhai, è stato condannato a 10 anni di carcere nel 2020, a cinque anni dal rapimento.
Non si può sapere se Peng farà la stessa fine. Molto dipenderà dalle intenzioni del Partito e dagli appoggi che gode ancora Zhang nella nomenclatura. Di sicuro, parlare di Peng come “eroina” del #MeToo cinese è allo stesso tempo ridicolo e avvilente. La star del tennis cinese non ha confessato lo stupro su Weibo per fare avanzare la causa femminista e non ha affidato il suo racconto ai social, invece che a un tribunale, per semplice mancanza di prove. Il problema di Peng non è il patriarcato, ma il regime.
Chi tocca il Partito comunista, si brucia
Peng sa benissimo che, a prescindere dal crimine compiuto, Zhang non potrà mai essere sfidato in tribunale o in un commissariato di polizia a meno che non sia il Partito stesso a volerlo affossare. Quanti attivisti sono stati arrestati in Cina per aver denunciato la corruzione di importanti membri del Partito? Quanti sono stati fatti sparire nelle prigioni nere solo per aver svelato le magagne dei nuovi mandarini rossi?
Peng non è sparita perché ha denunciato uno stupro, ma perché ha sfidato il regime, mettendo in imbarazzo uno dei suoi membri più importanti, per quanto in pensione. La tennista sapeva che il suo problema non sarebbe stato l’essere creduta o meno, non a caso ha scritto di sentirsi come «una falena che va incontro alle fiamme». Chi tocca il Partito, in Cina, si brucia. Non è #MeToo. È regime.
Foto Ansa
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