Per fare un medico ci vuole un amico

Di Giancarlo Cesana
16 Febbraio 2021
Incursione ragionata nella storia di un’arte divenuta sempre più pervasiva e pretenziosa. Che oggi ha bisogno come non mai di accettare il proprio limite davanti al mistero della persona
Un medico assiste un paziente malato di Covid ricoverato in terapia intensiva

Il testo che segue ripropone in sostanza un articolo del professor Giancarlo Cesana pubblicato su Medicina Historica, organo della Società italiana di Storia della medicina (vol. 4, 2020, pp.16-18). L’articolo, a sua volta, riassume la relazione tenuta dal presidente emerito della Fondazione Policlinico di Milano al 52esimo congresso della stessa società nel giugno 2019.

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Per quanto nella teoria e nella pratica medica il concetto di salute sia dato per scontato, non lo è per nulla, soprattutto in questi tempi di Covid, in cui domina l’affermazione “prima di tutto la salute”. Rimane vera l’osservazione di Victor von Weizsäcker, neurologo ed epistemologo tedesco attivo nella prima metà del secolo scorso: «Il fatto che la medicina odierna non possegga una propria dottrina sull’uomo malato è sorprendente, ma innegabile». L’attualità dell’osservazione è acuita dallo sviluppo della ricerca scientifica, che sta intaccando concetti che apparivano inamovibili, quali quelli di vita e persona. 

Due direzioni opposte

La medicina ha subìto nel tempo due processi apparentemente opposti. Il primo è il cosiddetto riduzionismo biologico: dall’approccio olistico di Ippocrate, per il quale, anche a causa dell’ignoranza, esisteva di fatto solo l’ammalato e non la malattia, al sintomo come conseguenza di danno d’organo individuato da Morgagni, più di venti secoli dopo, quindi, assai più rapidamente, danno di tessuto secondo Bichat (XVIII secolo), di una cellula secondo Virchow (XIX secolo), di una molecola secondo Pauling (XX secolo). Si è passati così dallo studio del grande, l’uomo e il suo destino, a quello del sempre più piccolo, la cui distanza dal grande appare così incolmabile da scoraggiare gli sforzi per percorrerla. 

D’altra parte la malattia e la sua cura sono così pervasive della società, che la medicina inevitabilmente ha cominciato ad assorbire e affrontare sempre più estesamente preoccupazioni della convivenza civile. Anche qui si possono individuare tappe di un’evoluzione che ha mostrato le sue realizzazioni più significative negli ultimi secoli. L’incapacità a trattare le pestilenze, che periodicamente abbattevano intere popolazioni, indusse a intraprendere interventi politico-sanitari attraverso uffici (“magisteri”, XIV secolo) che, al fine di evitare e controllare il contagio, proibivano assembramenti, regolavano le sepolture, imponevano la quarantena e avviavano al ricovero in lazzaretti quali ospedali appositamente adibiti – quello che avviene oggi. Nel XVII secolo Ramazzini promosse la medicina del lavoro, come diagnosi e assistenza alle malattie prodotte non dalla fatalità della natura, ma da una organizzazione sociale “artefatta”, quale il lavoro. La Rivoluzione francese cominciò quindi a intuire la salute come un diritto e Frank, direttore sanitario del Lombardo-Veneto, istituì la polizia medica, che puniva chi, violando le norme igieniche, di fatto ledeva tale diritto. Farr e Snow con l’epidemiologia introdussero una ricerca sanitaria applicata alla società; Darwin e Freud ampliarono decisamente le dimensioni storiche e culturali dei fenomeni biologici. Infine Virchow, pur assorbito dalla ricerca biologica, arrivò a dire che «la medicina è una scienza sociale e la politica non è che medicina su grande scala».

La sindrome dell’ottimismo

I due processi appena descritti, apparentemente divergenti, hanno in comune una sindrome dell’ottimismo, per cui nulla è impossibile al progresso scientifico. Come si compiacque Walter Rauschenbush (1862-1918), teologo e pastore protestante americano: «La velocità dell’evoluzione… documenta l’immensa capacità di perfezione latente nella natura umana. Forse questi diciannove secoli di influsso cristiano sono stati un lungo preliminare periodo di crescita e ora il fine e il frutto sono quasi a portata di mano». Poi vennero due guerre mondiali, il nazismo, il comunismo, la Shoah e via disgraziando. Tuttavia, nonostante l’ignoranza, manifestata anche nel corso della pandemia, non è affatto scomparso il mito, per cui la società sarà perfetta quando scientificamente organizzata. Anche la Oms si è fatta contagiare dal clima persistente di fiducia nel progresso. Nel 1946 ha definito la salute come «stato di completo benessere fisico, mentale e sociale (attenuato poi dall’aggiunta dell’aggettivo “ottenibile” nel 1998, nda) e non semplicemente l’assenza di malattia». Pur considerando la salute non come obiettivo della vita, ha posto come sue condizioni fondamentali «la pace, un tetto, l’istruzione, il cibo, un reddito, un ecosistema stabile, la continuità delle risorse, la giustizia e l’equità sociale» (Oms, Carta di Ottawa, 1986), cioè tutto.

Nonostante l’astrattezza delle definizioni, la costituzione dell’Organizzazione mondiale della sanità, il suo impegno e la sua autorevolezza hanno avuto conseguenze importanti. Soprattutto in Europa, a cominciare dalla Gran Bretagna nel 1948, sono stati realizzati sistemi sanitari nazionali, a copertura universale, riconoscendo il diritto dei cittadini all’assistenza nell’ambito della protezione sociale garantita dallo Stato. Altro passaggio fondamentale è stato la codifica delle procedure di consenso informato a tutela della consapevolezza e della libertà dei pazienti di fronte all’intervento del medico o del ricercatore (Oms, Conferenza di Helsinki, 1964). Nei paesi in via di sviluppo sono state valorizzate le medicine tradizionali e figure non mediche a carattere infermieristico per la diffusione e sostegno della medicina di base (Oms, Conferenza di Alma Ata, 1978). Con lo stesso intento, esteso anche ai paesi più progrediti, è stata incoraggiata la partecipazione dei singoli e della collettività come fattore indispensabile per il successo delle campagne preventive di educazione e promozione della salute (Oms, Carta di Ottawa, 1986). Il risultato di così grande sforzo culturale e politico è stato un decisivo contributo all’aumento dell’attesa di vita media nel mondo, dai 48 anni nel 1955 ai 71 di oggi. Non è certamente poco. 

L’utopismo, insito nella definizione di salute dell’Oms e delle sue applicazioni acritiche, ha prodotto anche inconvenienti non trascurabili, soprattutto nelle società più avanzate dove la sanità è più ricca ed evoluta. È stato giustamente osservato che tale definizione è più della felicità che della salute, con un aumento indebito di aspettative e di diritti. Già Ivan Illich nel 1977 aveva indicato come “medicalizzazione” l’invasione della medicina in campi che non le sono propri, dalle difficoltà dell’esistenza (per esempio, solitudine, lutto, insuccessi educativi) alle contraddizioni sociali. Oggi si parla addirittura di “diagnosi e prescrizione sociale” (Andermann su CMAJ 2016), ovvero della individuazione e trattamento dei sintomi di malessere oltre che nella persona, nell’ambiente in cui essa vive. Ovvia è la conseguente confusione di ruoli sociali e sanitari, con effetti raramente positivi. 

Obiettivi irraggiungibili

Alcuni autori ritengono il concetto di salute formulato dalla Oms “futile”, non in grado di affrontare utilmente i maggiori problemi sanitari di oggi. Nonostante la promozione di una «terza rivoluzione della sanità pubblica, che riconosce la salute come una dimensione chiave della qualità della vita», nel mondo, il numero di morti, 56 milioni, e il carico di malattia (global burden of disease, Gbd) misurato in anni persi per disabilità, circa 2.800 milioni di Daly (disability adjusted life years), non diminuiscono. Nei paesi sviluppati, a causa dell’invecchiamento delle popolazioni – un quarto della popolazione dell’Unione Europea ha più di 60 anni – e del conseguente aumento della cronicità, prodotto dai progressi della medicina, potrà verificarsi un insostenibile aumento della spesa sanitaria – per esempio in Italia, entro il 2050, il raddoppio della percentuale di prodotto lordo a essa dedicato. Nei paesi in via di sviluppo, gli obiettivi periodicamente fissati dalla Oms (Sustainable development goals, Alma Ata, 2018) per la riduzione di malati, morti e poveri attraverso l’educazione e giustizia sociale, si stanno dimostrando irraggiungibili nei prossimi decenni.

Lo svolgimento del pensiero prevalente a riguardo della salute ha infine conseguenze molto rilevanti sulla ricerca, sulle sue ricadute nella pratica medica e sulla percezione del pubblico. Grazie ai progressi della chirurgia, soprattutto dei trapianti, si è affermata una concezione ingegneristica del corpo con possibilità di manutenzione potenzialmente illimitata. La “normalità” tende a essere basata sulle credenze maggioritarie, a riguardo di un ideale di benessere, che a volte rappresenta un tentativo di controllo di fenomeni che sfuggono alle capacità di spiegazione. Il manuale statistico delle malattie mentali (Dsm in inglese) dalla sua prima edizione con 100 diagnosi nel 1952 è passato alle 370 diagnosi dell’ultima edizione del 2013, con l’inclusione medicalizzante di molto disagio sociale. In questi anni sta profondamente cambiando la legislazione a riguardo dell’inizio e della fine della vita, con la fecondazione assistita, le diagnosi pre-impianto, l’eutanasia, il suicidio assistito e la definizione dei criteri per l’ammissione alla terapia intensiva. Già nel 2003 il Consiglio di bioetica del presidente degli Stati Uniti aveva pubblicato un rapporto sui pericoli della ricerca farmacologica e genetica oltre la terapia, per la produzione di «bambini migliori, performance più elevate, corpi senza età, anime felici».

Il bisogno di un giudizio morale

Dalla lunga storia della medicina provengono elementi per un approccio più realistico al concetto di salute e alle sue declinazioni. La salute e la vita sono sempre state intese, prima che come diritto, come dono, come dato da rispettare innanzitutto da parte del medico. Non a caso nel Giuramento di Ippocrate (V secolo avanti Cristo) il primo impegno è di non nuocere, seguito da quello a non dare farmaco mortale o abortivo. Per tutto il Medioevo la salute, salus, è stata intesa come salvezza espressa da una unità tra corpo e anima, per cui era inutile guarire il primo senza salvaguardare la seconda. Queste tendenze olistiche si prolungano ancora oggi nella ricerca dei nessi tra psiche e soma e, non solo filosoficamente, tra esistenza e significato. La salute, come tutto nell’uomo, è una dote imperfetta, ma è la risorsa unica per vivere, anche nella malattia. Essa, pertanto, va protetta, sviluppata e possibilmente ripristinata secondo i criteri e gli scopi del suo soggetto, che è la persona e non la scienza o la società. La persona sfonda inevitabilmente i confini della biologia: è mistero ovvero evidenza tanto concreta quanto ultimamente impossibile da possedere. Il medico non è né una figura paternalista, che domina il paziente, né uno “iatrotecnico”, che risponde a quel che lui vuole. È un uomo messo in condizioni di soccorrere il bisogno di un altro uomo, con il quale è chiamato a condividere, in modo più o meno esplicito, lo scopo dell’esistenza. La presunzione di un fine a priori buono dei procedimenti tecnico-scientifici facilmente induce a utilizzare qualunque mezzo per perseguirlo. Tuttavia, la scienza, quella medica in particolare, è l’esito di azioni complesse che “devono” essere sottoposte al giudizio morale, perché agli estremi di ciò che è permesso stanno ciò che è obbligatorio e ciò che è proibito. 

Appartenenza e ragione

La morale, infine, non è fatta solo di regole, comitati etici e linee guida. Più profondamente discende da una appartenenza, dalla amicizia che fa la nostra vita indicandoci il comune destino per cui siamo fatti, e dall’uso della ragione secondo la categoria della possibilità, che non esclude quello che è più grande e immediatamente non si comprende. Gli ospedali sono stati fatti non perché si sapesse curare, ma per accogliere, assistere e sostenere; per amicizia alle persone e al loro destino. Poi, a poco a poco, in un lungo tempo, sono venute le cure. Non si può essere amici degli uomini se non si vive di amicizia. La coscienza di questo è forse il primo modo di collaborare alla salute, propria e degli altri. Maschere e distanziamenti sono condizioni provvisorie. 

Foto Ansa

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