
Perchè questa fretta di accoppiarci?
Avete presente quel meraviglioso drammone borghese che è Casa di bambola di Henrik Ibsen? «La vita di famiglia perde ogni libertà e bellezza quando si fonda sul principio dell’io ti do e tu mi dai», dice Nora a Helmer prima di decidere di abbandonarlo e di spezzare così i sacri vincoli coniugali e materni. Per molti versi, da laico, è il pensiero che mi ha suscitato il testo e la perdurante diatriba sui cosiddetti Dico. Ripeto: da laico. Perché, da laico, se dovessi dire quale sia oggi l’emergenza numero uno alla quale la politica dovrebbe dare prioritaria risposta sul tema della famiglia e delle convivenze, avrei pochissima e anzi nessuna esitazione: sostenere il tasso di fecondità. Chi segue da anni con crescente preoccupazione l’andamento demografico italiano, numeri alla mano, non può avere dubbi. E lo sostengo col più profondo rispetto verso chi, elettore o dirigente dell’Unione, ritiene invece che abbia una portata identitaria anteporre il tema dei diritti dei conviventi. Non ne faccio questione: la politica è fatta di scelte arbitrarie in ordine alle priorità da seguire. Ma i numeri sono numeri, e alla fine, se la politica mostra di restarne inconsapevole, si impongono con una logica propria.
Diamo un’occhiata alla demografia italiana. In Italia le modifiche alla struttura della popolazione sono assai più profonde rispetto alla media europea, essenzialmente a causa dell’invecchiamento delle generazioni del baby boom, della caduta del tasso di fertilità, e dell’allungamento della vita che naturalmente non può che farci gioire. La dipendenza demografica, cioè il rapporto tra le persone che hanno un’età superiore ai 65 e il totale della popolazione tra i 15 e i 64, agli attuali ritmi demografici nel 2050 passerà dall’odierno 28,9 per cento al 65 per cento, mentre l’Unione Europea a 27 registrerà una media del 51,4 per cento. Il tasso di dipendenza economica, cioè il rapporto tra la popolazione over 65 e gli occupati che hanno tra i 15 e i 64 anni, passerà dal 48,7 per cento attuale al 92,7, quando la media dell’Ue allargata dovrebbe passare dal 37,2 attuale al 70,2. Se diamo un’occhiata più in profondità ancora, osserviamo che il tasso di natalità italiana è fermo da anni a medie sconfortanti: rispetto ai 9,4 nati ogni mille abitanti del 2002-2003, saliti a 9,7 nel 2004, siamo tornati nel 2005 successivo a 9,5. In Francia sono 12,9. In Danimarca 11,9. Nei Paesi Bassi 11,5. In Svezia 11,2 e nel Regno Unito 12. Il tasso di fecondità totale, che misura i nati per donna in età feconda (ricordo che sotto l’1,9 non è garantita la stabilità demografica), è sceso in Italia dall’1,33 del 2004 all’1,32 del 2005. In Francia è a 1,94. Nel Regno Unito a 1,8. Idem per Finlandia e Svezia, mentre nei Paesi Bassi è a 1,73.
Non è un gap drammatico? Ci culliamo tutti nell’idea che saranno gli immigrati giovani, giocoforza, a evitare all’Italia il destino di un paese di vegliardi con sanità e previdenza al collasso. Per carità, niente contro le porte aperte agli immigrati se significano integrazione e coesione sociale, non il fallimento anarchico della logora bandiera multiculturalista. Ma se c’è un’emergenza innegabile, in materia di famiglia e demografia, è quella che riguarda i pochissimi nati. Si tratti del quoziente fiscale familiare da adottare gradualmente ma con decisione, o di misure radicali che vanno ben al di là dell’aumento degli assegni familiari, più che erosi dall’aggravio delle addizionali imposte da questo governo, non occorre essere devoti ai dettami della Cei per concludere che i Dico sono quanto meno eccentrici rispetto alla priorità vera.
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!