Perché la guerra non abbia l’ultima parola

Cosa sta dietro lo sdoganamento della violenza più cieca? È necessario ritrovare lo spazio per un confronto diplomatico

Striscia di Gaza, giugno 2021 (Ansa)

Orrore e barbarie. Ciò che nell’attuale conflitto israelo-palestinese colpisce è la dimensione dell’attacco di Hamas e l’inevitabile controffensiva. Ad oggi, 13 ottobre, si contano, ma i numeri sono destinati continuamente a cambiare, più di 1.300 morti da parte israeliana e circa 1.500 tra le fila palestinesi, più migliaia di feriti, dispersi e rapiti. Ci sono stati più morti israeliani in questa incursione che nelle ultime tre guerre. Né possiamo restare indifferenti alle immagini di neonati sgozzati nelle loro culle, anziani e donne rapite, giovani uccisi a centinaia.

Qualsiasi analisi non può prescindere da chi ha sferrato l’attacco (Hamas – che però non rappresenta tutto il popolo palestinese), quindi nell’individuazione dell’aggressore e di colui che è stato aggredito: Israele. I due contendenti non si possono certo mettere sullo stesso piano, come non si può prescindere dal fatto che la polizia israeliana si stia prodigando per proteggere dai linciaggi della popolazione i simpatizzanti di Hamas, oppure avvertire la popolazione civile palestinese quando le forze armate stanno per bombardare alcune zone della striscia di Gaza.

La via terroristica

La stessa preoccupazione non sorge dalla parte avversa, dove si stanno compiendo episodi di inaudita e brutale violenza disumana. Al tempo stesso, senza che questo costituisca un’attenuante, non si può ignorare che la questione palestinese sia senza soluzione da 75 anni. Chi ha un po’ di memoria storica non può dimenticare, quanto avvenne alle olimpiadi di Monaco del 1972, con gli attentati di Settembre nero. Già allora la via terroristica fu lo “strumento” adottato per mostrare al mondo l’evidenza della problematica palestinese.

In tutti questi anni non è stata trovata una soluzione. E questa è anche una responsabilità e una colpa di tutta la comunità internazionale. C’è però un aspetto che mi colpisce ancora più profondamente ed è una sorta di imbarbarimento globale. L’impressione che una spirale di violenza e acrimonia stia prendendo il sopravvento, anche nelle situazioni che riguardano le controversie internazionali.

Equilibri mondiali

Sino a poco tempo fa, sembrava che ci fosse un limite, almeno nel confronto tra gli Stati, legato ad un ordine mondiale che, in qualche modo, si era costituito dopo la Seconda Guerra mondiale e che veniva ritenuto, soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino, un ordine da preservare. È altrettanto vero però che al Tavolo di Jalta sedevano solo i tre grandi di allora: Usa, Urss e Gran Bretagna. Paesi che oggi rappresentano metà della popolazione mondiale non solo non sedevano ma non si sentivano neppure rappresentati: Cina, India, Africa, ecc. Costoro non hanno partecipato alla costruzione degli equilibri mondiali ma è chiaro che oggi rivendicano un ruolo.

Così come è evidente che la questione araba mai risolta sia oggi metafora e paradigma di altri conflitti presenti in molte parti del mondo. L’estremismo islamico è un tema che non abbiamo risolto neppure dopo la morte di Bin Laden e il ridimensionamento di al-Qaida.

Scenari drammatici

Quanto sta avvenendo in Ucraina, quanto sta avvenendo in Israele, quanto potrebbe accadere tra Cina e Taiwan, sono tutti fatti che mettono profondamente in discussione questo assetto, ma soprattutto ribadiscono, in via di fatto, la scelta della guerra come soluzione dei conflitti tra i popoli, l’opposto di quanto ci ricorda papa Francesco: «Con la guerra tutto è perduto. La guerra è sempre una sconfitta». E anche quanto già affermava Giovanni XXIII nella sua ultima enciclica, la Pace in Terris.

Questo è un primo elemento che non può essere ignorato: cosa sta dietro questo sdoganamento della violenza più cieca? Vediamo le stesse dinamiche svilupparsi in Ucraina, in Israele, nella striscia di Gaza come nei centri di detenzione dei migranti in Libia, che noi occidentali abbiamo accettato senza colpo ferire. Forse è proprio da qui che bisogna ripartire: cosa può fondare nella coscienza di ogni singolo uomo la consapevolezza che la guerra è una sconfitta e che non può essere la violenza la soluzione dei problemi e la “levatrice della storia”?

Perché, se accettiamo questo presupposto, allora dobbiamo prepararci nelle prossime settimane, come unica alternativa, a uno scenario ben più drammatico, nel quale saremo chiamati a vedere atrocità ancora più grandi, sgozzamenti in diretta, attentati terroristici sia dentro la striscia di Gaza che in Israele e probabilmente in tanti altri luoghi nel mondo. Uno scenario nel quale non possiamo affatto escludere che il conflitto si estenda a tutto il golfo, con il coinvolgimento di Iran, Libano, Siria, Giordania e forse anche Egitto e Arabia Saudita.

Come è stato possibile?

A quel punto è difficile pensare che Stati Uniti, Russia e Cina restino a guardare. Dunque, dobbiamo considerare certamente tutti gli aspetti geopolitici e strategici che sono in gioco, tra cui la lotta per il predominio all’interno della “regione del mondo arabo” tra Iran e Arabia Saudita (mi ha colpito che l’attacco di Hamas si avvenuto nel periodo in cui si cercava l’accordo tra Israele e Arabia Saudita). Allo stesso modo non può lasciare indifferente l’impreparazione di Israele all’attacco di Hamas, quando lo Stato guidato da Netanyahu detiene servizi segreti, il Mossad e lo Shin Bet, tra i più efficienti e preparati al mondo.

Come è stato possibile? Hanno fondamento le voci che ritengono che non si sia trattato di impreparazione ma di un atto “complice”, per consentire ad Israele di sferrare un attacco totale e definitivo al mondo palestinese? Da più parti sembra prevalere l’invito ad abbandonare ogni anelito di pace per lasciare che il conflitto si compi per intero, determinando un unico vincitore.

Responsabilità di ciascuno di noi

Diversamente e senza equivoci io credo sia necessario ritrovare lo spazio per un confronto diplomatico. Sono d’accordo con il cardinale Pizzaballa che afferma che questi sono i giorni del silenzio e che bisognerà lavorare sottotraccia, riaffermando le ragioni più profonde della pace che stanno nelle relazioni tra uomini che sperimentano quotidianamente la possibilità di una convivenza. Sono, infatti, molteplici le esperienze in corso, sia nella striscia di Gaza, sia in Israele che stavano dimostrando, costruendo progetti paradigmatici, la possibilità di una convivenza pacifica e costruttiva tra israeliani e palestinesi.

Queste opere rappresentano quella speranza che nessun conflitto può spegnere. Sono fiammelle nell’oscurità, segno indelebile che esiste una possibilità reale che trascende violenza e guerra. Gli equilibri globali del mondo non possono prescindere da questo anelito di fratellanza umana, dal desiderio e dalla fiducia che il male non rappresenta l’ultima parola. Finché la pace vivrà nel cuore, nella mente e nelle azioni di qualche uomo e donna neppure la guerra avrà l’ultima parola. Per questo la pace è realmente responsabilità di ciascuno di noi.

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