
Perché la Nato sta con Tripoli

La notizia della settimana con riferimento al conflitto libico non è la (tardiva) operatività della missione aeronavale europea Irene che dovrebbe far rispettare la mai rispettata risoluzione Onu del 2011 che ha istituito l’embargo sulle forniture di armi alle fazioni che si combattono in Libia. La vera notizia è il messaggio in codice che il segretario della Nato Jens Stoltenberg ha lanciato attraverso la sua intervista a Repubblica del 13 maggio. L’ex premier norvegese ha detto che la Nato sostiene gli sforzi Onu per una soluzione pacifica dei conflitti in Siria e in Libia, e che in Libia l’embargo sulle armi deve essere rispettato da tutte le parti in causa; tuttavia questo non significa mettere tutti gli attori, cioè le forze guidate dal generale Haftar e il governo di Fayez al-Sarraj, che è riconosciuto dalle Nazioni Unite. Perciò la Nato è pronta a dare il suo sostegno al governo di Tripoli.
Perché la Nato, che si è tenuta alla larga dalla guerra civile internazionalizzata di Libia dopo aver supportato le forze locali contro l’Isis nel 2016, si espone in questo modo? Il motivo va cercato nelle recenti evoluzioni del conflitto, e prima di tutto nel relativo successo dell’operazione Tempesta di pace lanciata il 25 marzo dalle milizie fedeli al Governo di accordo nazionale (Gan) che, grazie alle armi e ai mercenari siriani inviati dalla Turchia e soprattutto al coordinamento delle operazioni da parte di ufficiali delle forze armate turche, hanno riconquistato terreno. Le forze di Haftar, che tredici mesi fa avevano lanciato l’operazione Dignità per la conquista di Tripoli e avevano di fatto posto l’assedio alla capitale libica, nell’ultimo mese hanno perduto tutto il territorio che controllavano a ovest di Tripoli fino al confine con la Tunisia, e in particolare la città di Sabrata; si sono ritirate nella base aerea di al-Watiya che adesso è assediata dalle milizie governative, che si sono spinte ancora più a sud per attaccare Tarhuna, caposaldo nevralgico dell’offensiva delle forze di Haftar. Le forze del Gan possono contare sull’apporto di 5 mila (secondo molte fonti) ribelli antigovernativi che fino al gennaio scorso operavano in Siria; fra loro si trovano elementi turcomanni, cinesi uiguri, ex delle fazioni siriane filo-Al Qaeda e persino ex dell’Isis. Ma soprattutto il Gan può contare sui droni turchi Bayraktar Tb-2 e su sistemi di difesa aerea con missili a medio e corto raggio (oltre a blindati e artiglieria).
Dall’altra parte della barricata si segnala lo strano fenomeno per cui mentre si allunga la lista dei paesi che fiancheggiano apertamente Haftar o che almeno tifano per lui, la posizione del generale si logora man mano che i mancati successi militari lo spingono ad atti ogni volta più estremi. A gennaio l’uomo forte della Cirenaica ha decretato un embargo sul petrolio libico, ordinando di bloccare estrazione ed esportazione del greggio che è l’unico export e l’unica fonte di valuta pregiata per il paese. La mossa doveva convincere la comunità internazionale a sostenere l’azione del generale, ma finora è servita solo a far perdere alla Libia 4 miliardi di dollari di entrate e a rendere più dura la vita dei civili in tutto il paese. Nelle ultime settimane le sue forze, frustrate per gli insuccessi sul campo, hanno preso a lanciare missili e colpi di mortaio contro i quartieri residenziali di Tripoli e dintorni, causando decine di vittime fra i civili. Si calcola che nei tredici mesi dell’offensiva il suo Esercito nazionale libico (Enl) abbia colpito 62 volte strutture sanitarie e che quasi il 90 per cento dei morti fra i civili siano da attribuire a sue azioni. Infine il 27 aprile Haftar si è autonominato capo supremo di tutta la Libia, con un annuncio che è stato condannato non solo dall’Italia e dall’Unione Europea, ma anche dagli Stati Uniti e da suoi stretti alleati come Russia ed Egitto. Haftar ha di fatto messo fuori gioco le istituzioni libiche da cui derivava la sua legittimità: il governo di Bengasi presieduto da Abdullāh al-Ṯānī e il parlamento di Tobruk, che è pure riconosciuto dall’Onu ed è presieduto da Aqila Salih.
D’altra parte la lista degli alleati del leader dell’Enl si è nel tempo fatta molto lunga e preoccupante. A sostenere con armi e/o mercenari il generale ci sono Russia, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Giordania, mentre la Francia, che pure ha puntato dal punto di vista politico le sue fiches su Haftar, nega di aver fornito sostegno militare, ma nel luglio dell’anno scorso in una base dell’Enl riconquistata dal Gan sono stati trovati missili americani Javelin di provenienza francese. Ci sono i paesi che simpatizzano per Haftar in funzione anti-turca: Grecia, Cipro e Israele. Oltre alle armi, dalla Russia arrivano un migliaio di mercenari del Gruppo Wagner, poi ci sono 3 mila janjaweed sudanesi, già responsabili di atrocità in Darfur, e ora anche centinaia di ex ribelli siriani delle regioni di Quneitra e di Homs, segno tangibile dell’amicizia con la Siria di Assad. Quest’ultima è notizia sorprendente e suggestiva, evocando la possibilità che presto combattenti siriani di opposta affiliazione si scontrino fra loro sul suolo libico (come gli italiani che negli anni Trenta combattevano sui due fronti della guerra civile spagnola). Decisivo nel determinare questo scenario è stato lo scambio di ambasciatori fra Damasco e Bengasi nel marzo scorso: Assad e Haftar si sono reciprocamente riconosciuti a livello diplomatico. Registi dell’operazione gli Emirati Arabi Uniti, che dopo aver sostenuto per alcuni anni i ribelli anti-Assad del Fronte Meridionale, 58 fazioni affiliate al Free Syrian Army nel governatorato di Daraa, hanno spostato il loro sostegno sulle Forze democratiche siriane (Fds) dominate dai curdi del Pyd, in funzione anti-turca. Nel dicembre 2018 Abu Dhabi ha riaperto dopo sei anni la sua ambasciata a Damasco. All’inizio di quest’anno Mohammed bin Zayed al Nayan, responsabile della politica estera degli Emirati, avrebbe addirittura offerto 3 miliardi di dollari al presidente Assad se questi non avesse fermato la sua offensiva nell’Idlib, come è poi successo con la tregua mediata da Mosca ed entrata in vigore poco prima della metà di marzo. La vicenda ha molto irritato la Russia, da anni impegnata in un sottile gioco politico-militare con la Turchia che è avversaria di Mosca sia in Siria che in Libia, ma è anche partner di accordi energetici e militari, e di un continuo negoziato per la spartizione di aree di influenza. Per Abu Dhabi, invece, qualunque azione possa mettere in difficoltà Erdogan è benvenuta, e l’offensiva siriana governativa nell’Idlib, dove sono impantanati migliaia di soldati turchi, appariva come l’ideale per distrarre Ankara dai suoi progetti in Libia. Superata la crisi, russi ed emiratini lavorano d’intesa al trasferimento di ex ribelli siriani anti-Assad che hanno deposto le armi in Libia, dove dietro pagamento le riprendono per combattere contro il governo di Tripoli.
Nella situazione che si è creata, la Nato sembra intenzionata a non lasciare ad Erdogan il merito del salvataggio del governo di Tripoli e a rintuzzare la penetrazione russa in Libia approfittando del momento di difficoltà militare delle forze dell’Enl. Giovedì 14 maggio il presidente turco ha avuto un colloquio telefonico con il segretario generale della Nato Stoltenberg. In una nota diffusa dall’Alleanza si legge che il segretario ha detto che la Nato «è disponibile ad aiutare (la Libia – ndr) a ricostruire le sue capacità di difesa e sicurezza e ha sottolineato il sostegno per una soluzione politica negoziata». Un’interpretazione potrebbe essere che i rappresentanti delle istituzioni di Bengasi e Tobruk, emarginati dal pronunciamento con cui Haftar il 27 aprile ha assunto i pieni poteri, potrebbero essere coinvolti in un nuovo tentativo di transizione politica negoziata.
Foto Ansa
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