
Petrolio. Una guerra mondiale

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Nel 2008, l’anno in cui scoppiò la crisi che ancora fa arrancare le economie di tutto il mondo, un barile di greggio costava in media circa 135 dollari. Quest’anno, con la stessa cifra, se ne possono comprare quattro, se non di più. Il petrolio è sempre stato un veliero esposto alla bora e alla bonaccia del mercato ed è normale che il suo prezzo oscilli a seconda del momento storico: negli ultimi trent’anni è passato dai 13 dollari del 1986 ai 35 del 1990, dai 13 del 1999 ai 135 del 2008. Da fine 2009 il prezzo dell’oro nero si è stabilizzato intorno ai 90-100 dollari al barile e da lì non si è più mosso fino al 2014, quando è cominciato un crollo verticale che se da un lato ha favorito paesi come l’Italia, dall’altro ha spaventato gli sceicchi dell’Arabia Saudita (98 miliardi di deficit nel 2015), danneggiato giganti africani come la Nigeria (in recessione, costretta a svalutare la moneta locale rispetto al dollaro del 50 per cento) e letteralmente rovinato stati sudamericani detentori di enormi riserve come Venezuela e Brasile.
Il mercato è capriccioso e può essere crudele, ma in questo caso le fortune e le rovine di tanti produttori non sono dettate solo dalla legge della domanda e dell’offerta, bensì dalla precisa strategia politica di chi vuole usare l’oro nero come un’arma. E da questo punto di vista, un barile di petrolio a prezzo stracciato può fare più danni della bomba atomica nordcoreana.
Domanda, offerta e colpi bassi
Sicuramente non mancano le ragioni che hanno portato alla diminuzione della domanda di petrolio: la crisi che ha azzoppato l’economia mondiale, il rallentamento della Cina, che cresce ancora del 6,9 per cento ma che ci aveva abituato a balzi annuali di oltre il 10, l’avanzamento della tecnologia che garantisce migliori prestazioni a parità di consumi, il boom del gas naturale (vorrà dire qualcosa se quest’anno la Shell ha completato l’acquisizione più onerosa della storia: 70 miliardi di dollari per British Gas) e l’aumento della produzione degli Stati Uniti, il più grande consumatore del pianeta, che grazie allo shale oil è diventato autosufficiente.
Insieme alla diminuzione della domanda, c’è stato anche un eccesso di offerta dovuto a diversi fattori: prima di tutto l’irruzione nel mercato del citato shale oil americano, il petrolio di scisto grazie al quale gli Stati Uniti hanno raddoppiato la produzione dal 2008 superando i 9 milioni di barili al giorno; poi quella dell’Iran, che dopo la firma del trattato sul nucleare l’anno scorso ha potuto ricominciare a estrarre e vendere greggio a ritmi elevati.
Il calo della domanda, a fronte di una maggiore offerta, non basta però a spiegare il crollo del prezzo del petrolio. La situazione attuale è dovuta anche a una precisa scelta politica di alcuni paesi riuniti nell’Opec, il club degli esportatori di petrolio, che controllano circa il 78 per cento delle riserve mondiali accertate e forniscono circa il 42 per cento della produzione mondiale. L’Arabia Saudita, insieme ai suoi alleati nel Golfo, nel novembre del 2014 si è infatti rifiutata di limitare la produzione, nella speranza di mettere in ginocchio concorrenti già in difficoltà come Iran e Russia, e danneggiare quei produttori che hanno bisogno di prezzi alti per sostenere l’estrazione, come gli Stati Uniti. Il risultato di questa guerra del petrolio, però, non è stato quello che i sauditi si aspettavano.
Per quanto riguarda gli Stati Uniti, se all’inizio del crollo dei prezzi centinaia di aziende che si erano lanciate nello shale oil sono state costrette a chiudere i battenti, strangolate dalla corsa al ribasso, nel giro di un anno e mezzo il settore si è ripreso, grazie a una tecnologia sempre più efficiente e meno costosa. Secondo Wood Mackenzie, un leader globale nella consulenza energetica, da quando è cominciata la crisi dei prezzi gli Stati Uniti hanno tagliato il costo di estrazione del greggio del 30-40 per cento, contro una media mondiale del 10-12. Oggi il 60 per cento degli investimenti petroliferi che possono fruttare, anche se il prezzo del greggio rimane intorno ai 60 dollari al barile, riguarda lo shale oil americano.
Il ritorno in campo dell’Iran
Ma se l’Arabia Saudita ha incrementato la sua produzione al livello record di 10,7 milioni di barili al giorno, allagando così il mercato di petrolio a basso costo, lo ha fatto anche per colpire il suo arcinemico: l’Iran. «Anche in questo caso, però, ha fallito», spiega a Tempi Alberto Negri, inviato di guerra del Sole 24 Ore, profondo conoscitore del Medio Oriente. «Prima della Rivoluzione, nel 1978, Teheran produceva 6 milioni di barili al giorno. Dall’accordo sul nucleare del luglio 2015 può tornare a produrre e vendere come prima: ora l’obiettivo iraniano è pompare petrolio come un tempo». Esattamente quello che i sauditi non vogliono, «visto che la guerra tra Teheran e Riyad va avanti su tutti i fronti: dalla Siria, dove i sauditi vogliono buttare giù l’alleato sciita dell’Iran, Assad, allo Yemen, dove gli sceicchi sunniti cercano di sconfiggere i ribelli Houthi. La guerra tra le due potenze non è solo per il controllo del Medio Oriente, ma anche per quello dell’islam». Non a caso, quando ad aprile i paesi dell’Opec si sono riuniti in Qatar per discutere di come far rialzare i prezzi, magari frenando la produzione, l’Arabia Saudita si è opposta, essendo disposta a rimetterci ancora pur di contrastare l’Iran. Teheran però è ancora in piedi, ha raggiunto una produzione di 3,6 milioni di barili al giorno e non ha alcuna intenzione di fermarsi.
Anche gli Stati Uniti, per quanto inizialmente danneggiati, hanno approvato la politica saudita pur di rovinare la Russia e danneggiare l’odiato Vladimir Putin. «Teniamo anche conto – continua Negri – che l’Arabia Saudita resta il principale alleato degli Stati Uniti nel Golfo, anche se fomenta l’ideologia islamica più conservatrice. Negli ultimi cinque anni hanno venduto 100 miliardi di armi agli sceicchi: direi che è chiaro da che parte stanno». Nonostante lo sforzo congiunto, anche Mosca, l’ottavo paese al mondo per riserve petrolifere, per quanto in crisi ha retto l’urto. A crollare davanti alla spregiudicata politica dei paesi del Golfo sono stati altri, a partire dal Brasile e dal Venezuela, che vanta le più ampie riserve petrolifere del pianeta. Eppure, sotto la guida di Nicolás Maduro, lo stato sudamericano che dipende quasi interamente dalle esportazioni di greggio è sprofondato nella crisi, con una crescita negativa dell’8 per cento, un tasso di inflazione vicino al 500 per cento e il rischio che le sue riserve valutarie si esauriscano entro l’anno.
La stessa Arabia Saudita però si è scottata: il petrolio vale il 70 per cento dei ricavi sauditi e nonostante i bassi costi di estrazione, Riyad ha chiuso l’anno con un deficit del 15 per cento e ha dovuto usare 115 miliardi di dollari di riserve estere per ripianare i conti. Anche per questo il governo ha annunciato da poco un piano post-petrolifero intitolato “Visione per il regno dell’Arabia Saudita”, nel quale sono state proposte riforme economiche e sociali. Il “Programma di trasformazione nazionale”, pubblicato a giugno, dettaglia la prima fase di riforme annunciate nel documento di aprile, tra cui la privatizzazione del 5 per cento della compagnia petrolifera di Stato, Saudi Aramco, tagli ai sussidi su acqua ed elettricità, l’aumento delle tasse e l’istituzione di un fondo sovrano attraverso cui reinvestire i proventi del petrolio. «L’obiettivo è diversificare l’economia», spiega Negri. «Ma non basta spostare i soldi. Deve cambiare il sistema, la mentalità, l’ambiente sociale e politico. Dubito fortemente che un paese dove le donne non possono guidare, non si vota e circa il 50 per cento della manodopera è straniera e sottopagata possa farcela».
Mai mettersi d’accordo
Sia per il fallimento dei piani originari, sia per le difficoltà economiche incontrate e sia perché ora i sauditi, secondo fonti Opec citate da Reuters, hanno bisogno di prezzi più alti per il greggio «per meglio vendere le azioni della compagnia petrolifera di bandiera», molti pensano che alla prossima riunione dei paesi petroliferi ci sarà un deciso dietrofront. L’incontro avverrà dal 26 al 28 settembre ad Algeri, ma cambiare non è facile. «Non mi sembra possibile che Iran e Arabia Saudita si mettano d’accordo, non finché i sauditi hanno questo atteggiamento aggressivo. Se fossi un iraniano, non cederei di un millimetro», continua Negri. Altre fonti industriali citate sempre dall’agenzia Reuters sono altrettanto scettiche: «Non penso che il ministro per l’Energia saudita, Khalid al-Falih, voglia davvero tagliare la produzione saudita. Piuttosto faranno più attenzione a mettere in atto politiche che allaghino ancora di più il mercato di petrolio».
Sul tavolo c’è una proposta di limitare la produzione mondiale, o perlomeno di congelarla allo stato attuale, ma l’accordo è ancora di là da venire e nessuno sembra realmente intenzionato a deporre le armi petrolifere. Anzi, l’Arabia Saudita non ci sta a fare la parte del paese indebolito. «Possiamo aumentare la nostra produzione anche a 12,5 milioni di barili al giorno», ha minacciato il ministro Al-Falih, spaventando i mercati. Poi però ha aggiunto: «Ora il mercato è saturo e non vedo la necessità per il regno di raggiungere la sua massima capacità».
La verità è che l’Opec non sembra più essere in grado di guidare la politica petrolifera. «L’organizzazione è in declino», conclude il giornalista del Sole. «Basta guardare i suoi paesi fondatori: Iran, Iraq, Kuwait, Arabia Saudita e Venezuela. Da cinquant’anni tutti tranne il Venezuela, invece che mettersi d’accordo, non hanno ancora smesso di farsi la guerra».
Foto Ansa/Ap
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2 commenti
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ho un parente stretto che veniva spesso inviato in Arabia Saudita dalla multinazionale per cui lavora. Non ce lo mandano più perché hanno subito un reale calo di vendite del petrolio e non sono considerati un mercato tanto appetibile.
Finché erano appetibili:
– erano disincentivati a lavorare, lavoravano solo gli stranieri.
– tra questi c’erano i tecnici o manager come il mio parente, ma anche tanti stranieri irregolari senza i minimi diritti (es. gli veniva ritirato il passaporto etc.)
Ora magari lavoreranno e magari la gente protesterà di più per i diritti.
Proprio una guerra.
Per il momento va bene a tutti i consumatori (automobilisti, produttori di elettricità, compagnie aere, ecc.)
che pagano come 10 anni fa i carburanti.