
Più che Vecchio…un continente decrepito
La demografia può servire come potente strumento di previsione per stabilire una media di produzione nelle proiezioni economiche a lungo termine. Le variazioni annuali nelle nascite, la misura della forza lavoro e l’aspettativa di vita raramente determinano degli orientamenti ma, nel lungo termine, possono dare origine ad una linea di tendenza economica che impiega anni per arrestarsi e ancor di più per invertire la sua rotta.
Le tendenze della crescita della popolazione investono infatti tutti gli aspetti dell’economia anche se questo articolo si limiterà a trattare il previsto calo nel tasso di crescita del Pil, l’investimento di capitale e l’imminente bancarotta della sanità pubblica e dei sistemi pensionistici dell’Unione Europea e del Giappone.
Alcuni concetti base -tasso di natalità
La forza responsabile della crescita della popolazione è il suo tasso di natalità – specificamente il numero di figlie che la donna media partorisce nella vita riproduttiva. Se, in media, una donna semplicemente rimpiazzerà se stessa durante quel periodo, la popolazione ultimamente si stabilizzerà – anche se, nel breve termine, continuerà a crescere come il risultato di un’alta proporzione della popolazione femminile all’apice dell’età riproduttiva.
-tasso di fertilità totale Il numero delle nuove formazioni famigliari è comunque una misura inadeguata delle recenti tendenze della fertilità, poiché conta tutti i bimbi nati da donne fino all’età di 45-50 anni, sebbene la maggioranza di essi sia nata quando la madre aveva un’età di 35 anni. Una pietra di paragone migliore è il Tfr (tasso di fertilità totale). Per ricavare quello relativo ad un certo anno dato, dobbiamo prima calcolare il numero delle nascite durante l’anno per mille donne in ogni gruppo di persone comprese fra i 15 e i 49 anni – dato che costituisce il tasso di fertilità per età specifica (Asfr). I valori dell’Asfr vengono poi sommati e divisi per mille. Così si ottiene il Tfr: quello per il 1999 è il numero dei bambini che nascerebbero a una donna nel corso della sua vita riproduttiva se la sua fertilità in tutti i momenti – tra i 15 e i 49 anni – corrispondesse esattamente all’Asfr del 1999 relativo alle donne in quelle fasce d’età.
-tasso di riproduzione netto Nelle società Occidentali, dove i tassi di mortalità infantile sono bassi, la popolazione è stabile a un Tfr di 2.10 bambini per donna.
Abbiamo approssimativamente il 5% in più di bambini nati rispetto alle bambine, e d’altra parte una piccola percentuale di queste bambine non riesce a sopravvivere per l’intero ciclo della sua vita riproduttiva, perciò un Tfr di 2.10 corrisponde a un tasso di riproduzione netto (Nrr) di 1.0 figlie per donna. Nei paesi dove i tassi di mortalità sono maggiori, il Tfr dovrebbe essere più alto per ottenere lo stesso Nrr.
Ospizio Vecchia Europa Dei maggiori paesi sviluppati, solo gli Usa oggi godono di un tasso di fertilità pari al “livello di ricambio”. In Europa, il tasso di natalità ha cominciato a calare in Francia fin nel 1780, ben prima dell’impatto della Rivoluzione Industriale. In tutto il continente europeo si è registrato da allora un fluttuante calo. Le nascite calarono ben al di sotto del livello di ricambio durante il 1930 perché le coppie, che dovevano affrontare la disoccupazione senza alcuna protezione sociale, limitarono la prole.
La ripresa economica del Dopoguerra e la crescita dell’occupazione determinarono un forte aumento delle nascite con una conseguente eco anche negli anni ’60. Da allora, tuttavia, i tassi di fertilità hanno ripreso a scendere.
Il Tfr è sceso sotto il “livello di ricambio” in Danimarca 30 anni fa, e il resto dell’Europa presto ne ha seguito l’esempio. Dal 1996, il Tfr spagnolo è fermo al 55% del tasso di ricambio. Questo implica che se il Tfr spagnolo e la speranza di vita rimarranno ai livelli correnti, la popolazione diminuirà del 45% in una generazione, (in assenza di immigrazione). Perché è successo questo?
Un insieme di diversi fattori hanno condotto a questo declino.
Per iniziare, le ragazze stanno oggi superando i ragazzi nello studio e, lasciando la scuola, una crescente percentuale di loro accede a livelli più alti di istruzione e specializzazione. Per quanto riguarda le lauree, le donne – probabilmente per cercare lavori meglio retribuiti – preferiscono migliorare il livello delle loro competenze specialistiche piuttosto che crescere una famiglia – in particolare adesso che i contributi in borse di studio e sovvenzioni fanno sì che gli studenti della Gran Bretagna completino gli studi avendo da coprire un debito di 5-10mila sterline. Inoltre, mentre la differenza fra gli stipendi di uomini e donne continua ad assottigliarsi, gli svantaggi che derivano dall’abbandonare il lavoro per la maternità sono cresciuti.
Il fatto poi che, con il passaggio a livelli di istruzione superiori, i bimbi debbano ricevere il sostegno economico dei genitori fino all’età di 21-22 anni (piuttosto che di 16), aumenta il carico sulle spalle della famiglia.
Le donne sono d’altra parte consapevoli della fragilità del matrimonio, e stanno sempre più cercando l’indipendenza economica, per esempio aprendo mutui a loro nome.
Queste difficoltà finanziarie determinano con la loro azione congiunta un freno, ritardando il metter su famiglia, e questo – poiché la fertilità femminile comincia a declinare dopo l’età di 24 anni – può significare l’arresto delle nascite. Infatti, si prevede che in Gran Bretagna circa il 23% delle donne nate nel 1972 completino la loro vita riproduttiva senza far nascere alcun bambino.
Ma il calo del Tfr non è limitato all’Unione Europea. Nell’Europa dell’Est il tasso di natalità, che è oscillato attorno al livello di ricambio sotto il comunismo, è calato a picco quando il crollo di quel sistema ha determinato la fine del lavoro e del salario garantito, così come del sistema pensionistico e della sanità. Anche nella cattolica Polonia, il tasso di fertilità non è riuscito a riprendersi, nonostante diversi anni di forte ripresa economica, e adesso è stabile al 20% sotto il livello di ricambio. E in Russia e in Ucraina la situazione è ben peggiore. La cosiddetta transizione demografica è stata ancora più drammatica nei paesi in via di sviluppo. Mentre il Tfr del Giappone è crollato dal 4,0 all’attuale 1,46 nell’arco di 48 anni, quello del Brasile è sceso dal 6,0 al 2,5 in soli 40 anni, quello della Turchia dal 6,46 a 2,55 in 36 anni. Il tasso di fertilità tailandese è oggi sotto il livello di ricambio e il Tfr di Bangkok è sotto quella soglia del 25%.
Se la città guida questa tendenza, la campagna segue a breve distanza e prevediamo che il Tfr continui ad abbassarsi, accelerato dall’impatto dell’Asia con la recente crisi economica.
Conseguenze economiche Una volta che conosciamo la composizione di una popolazione per età e sesso in un dato anno, possiamo prevedere con un alto grado di precisione la popolazione in età lavorativa per i successivi 18-20 anni e il numero dei pensionati per 60-65 anni nel futuro. Con questi dati è possibile tracciare conclusioni su scenari diversi, dalla crescita del Pil alla geopolitica, fino alla capacità di sopravvivenza sulla lunga durata del sistema pensionistico e della sanità di stato.
L’Unione Europea nasce vecchia La tabella1 proietta il contributo alla crescita del Pil dei diversi paesi per i prossimi 50 anni, mostrando come la crescita media della produzione potenziale cadrà dal 2,3% del 2000 fino allo 0,5% nel 2025-2050.
Poiché altre nazioni, in particolare quelle dell’Asia e dell’America Latina, avranno una crescita demografica relativa più forte per più tempo, continueranno a incrementare il loro contributo al Pil mondiale e con esso il loro potere geopolitico di contrattazione. Entro il 2050 il contributo dell’Unione Europea al Pil mondiale sarà a malapena la metà di quello che è oggi mentre il Giappone, la potenza economica degli anni ’80, sarà ridotto alla irrilevanza economica, contribuendovi per un misero 3,7%.
Poiché il declino della natalità si avvertirà in momenti differenti nei vari paesi dell’Unione Europea e la sua velocità e la sua diffusione sarà marcata in maniera diversa, il prossimo secolo si aprirà con maggiori differenze nella crescita della forzalavoro. Fino ad oggi infatti il calo demografico è stato nascosto da alcuni fattori estranei come la riunificazione della Germania, il crollo della vecchia Unione Sovietica (che ha permesso ad una moltitudine di emigranti di spostarsi in Occidente), la guerra civile in Jugoslavia e le urgenze economiche di Maastricht.
Ma questa divergenza sotterranea diventerà presto troppo evidente per essere ignorata, come indicano le proiezioni sulla crescita del volume della forzalavoro nei vari paesi (Tabella 2) e si tradurrà in livelli differenti di crescita economica, smentendo l’asserzione semplicistica secondo cui l’Unione Europea può essere considerata come una singola unità omogenea ai fini degli investimenti.
Inoltre si evidenzia che in assenza di una variazione del flusso migratorio, il livello della popolazione in età lavorativa sarà effettivamente bloccato per i prossimi 20 anni. Se il tasso di natalità raddoppiasse domani, ciò avrebbe un impatto sulla forza-lavoro solo una volta che questi bambini avessero terminato gli studi universitari.
È questo fattore che offre un alto grado di certezza che queste fosche previsioni siano corrette.
Il Terzo Mondo conquisterà l’Europa Naturalmente la crescita economica non sarà destinata a cadere fino a questi catastrofici livelli se la forza-lavoro verrà rinforzata dall’immigrazione, ma le reali dimensioni del problema sono scoraggianti. I cinque paesi più grandi dell’Unione Europea dovrebbero importare qualcosa come 35 milioni di lavoratori (e le persone a loro carico?) per riuscire a stabilizzare la forza-lavoro sui livelli attuali nel 2050. Due quinti della manodopera della Germania sarebbe costituita da immigranti per quella data. Inoltre, società così altamente sviluppate e tecnologicamente sofisticate come quelle dell’Unione Europea richiedono un’immigrazione con competenze più che elementari. In tutta l’Unione Europea la disoccupazione tra gli immigranti è più alta di 2/3 rispetto a quella della popolazione locale, e in parte proprio perché i primi non possono garantire le competenze necessarie. L’Europa dell’Est e la vecchia Unione Sovietica possono fornire solo una piccola parte della manodopera richiesta (a meno che la Russia non si sfasci completamente). Ma visto che il tasso del Tfr nell’Europa dell’Est è sotto il livello di ricambio un tale influsso sarebbe comunque solo un paliativo di breve durata.
Il Nord Africa, da parte sua, può fornire soprattutto lavoro poco qualificato e i problemi di adattamento e assimilazione sono tali che aumentare la presenza di immigrati di quelle aree di provenienza sarebbe politicamente molto difficile per la maggior parte dei governi europei. In sintesi, è difficile capire come l’Unione Europea, lasciata da sola, potrà mai rallentare se non allontanare il crollo della crescita economica previsto per i prossimi 20 anni.
Se cala la crescita economica, ci sarà meno spinta ad investire in capacità extra-produttive e, sul lungo termine, questo significherà un invecchiamento dei sistemi produttivi e degli equipaggiamenti. Una situazione che metterà i paesi colpiti in una posizione di svantaggio competitivo rispetto a quelli in cui la forza-lavoro – e soprattutto i livelli di consumo – continuano a crescere e che hanno investito e messo a punto nuovi sistemi per incontrare una domanda crescente. Gli industriali europei devono allora riposizionarsi centrando i loro interessi sull’esportazione nei paesi in via di sviluppo piuttosto che sul mercato europeo.
Previdenza e sanità in bancarotta Il Payg, il sistema pensionistico di Stato, è la norma nell’Unione Europea. Si tratta di un accordo intergenerazionale per cui i contributi di coloro che lavorano pagano le pensioni a quelli che sono a riposo. Per un dato livello di versamento pensionistico (espresso in percentuale sullo stipendio medio) il tasso di contribuzione è direttamente proporzionale al rapporto tra pensionati e lavoratori.
Sfortunatamente, abbassandosi il tasso di natalità e alzandosi invece l’aspettativa di vita, succede che sempre meno occupati sostengono un numero sempre più alto di pensionati. Per esempio, tra 1995 e 2050, si prevede che questa proporzione salirà da 0.32 a 0.80 in Germania. In altre parole, se il livello delle pensioni di stato e l’età pensionabile si mantenessero ai livelli correnti, il tasso dei contributi dovrebbe aumentare del 150%.
Si tratta evidentemente di un punto di non ritorno, poiché l’impennata dei costi sociali imporrebbe a qualsiasi azienda prezzi fuori dal mercato. Senza contare l’incoraggiamento al lavoro nero (con la connivenza dei datori di lavoro) e l’ulteriore impoverimento delle già insufficienti entrate statali che farebbe gravare su coloro che pagano le tasse un carico ancora maggiore.
Ma ciò che vale per le pensioni vale anche per i costi di funzionamento del servizio sanitario statale. Infatti un paziente di 85 anni ha un costo di 11 volte supeiore a quello di un bambino dai 5 ai 15 anni – e il numero degli anziani ultraottantenni sta aumentando in tutta l’Unione Europea. La sanità è poi un’attività di lavoro intensivo e le aspettative per una crescita della produttività sono limitate – in altre parole la richiesta di dottori, infermieri e personale addetto continuerà ad aumentare in un periodo in cui la forza lavoro disponibile subirà un rapido calo. Già oggi in Gran Bretagna mancano 13mila infermiere che vengono recuperate assumendo personale filippino. Negli anni a venire il conto paga aumenterà e così il budget statale richiesto per le spese sanitarie.
La salvezza viene dai privati Devono essere compiuti passi drastici se non si vuole che i costi per la sicurezza sociale, in continua crescita, riducano i governi dell’Unione Europea sul lastrico, così come è già avvenuto in Cile e in Argentina. Gli stati potrebbero allora trasferire gradualmente determinati impegni ai privati che provvederebbero con le proprie risorse a pensioni e sanità, e indubbiamente ci sono buoni motivi per consigliare questa strategia. Il Cile, ad esempio, costretto dalla crisi, si è incamminato su questa strada nel 1980 e ha trasformato con successo la sua economia e il suo settore finanziario. La crescita economica è stata forte e l’inflazione ridotta.
Comunque, quando si realizza il passaggio da un sistema pensionistico finanziato dallo stato ad uno privato, i contributi dei lavoratori verso lo stato hanno fine, ma non l’obbligo per quest’ultimo di continuare a pagare le pensioni. Il Governo si accolla così un grande debito a lungo termine che può ammontare ad oltre il 200% del Pil per paesi come la Francia e l’Italia – 3 volte il limite imposto da Maastricht. Per farci fronte senza ritoccare l’importo delle pensioni, le trattenute sulla busta paga dovrebbero aumentare di 15/16 punti percentuali nella maggior parte dei paesi. Ciò potrebbe danneggiare seriamente gli investimenti e la crescita economica.
In dieci anni Italia fuori dalla Moneta unica Le differenze nella situazione delle diverse economie all’interno dell’Unione Europea sono prossime a colpirne la stabilità economica. Le ricerche dell’Imf hanno concluso senza alcun dubbio che, nel caso della Francia, il contributo della spesa pubblica al Pil potrebbe non arrestarsi ai 15 punti percentuali calcolati considerando solo il primo impatto dell’invecchiamento sull’economia, ma salire a 35 punti entro il 2050 e che la crescita economica potrebbe arrivare allo stallo.
Per contrasto in Irlanda sia il livello delle tasse che il rapporto debito/Pil stanno calando grazie ad un andamento favorevole della crescita demografica. Il crescente strappo demografico entro i paesi dell’Unione Europea minaccia di fare a pezzi il sistema della Moneta Unica e io credo che il rischio per l’Italia di essere estromessa da questo sistema durante la prossima decade sia più alto di quanto il mercato obbligazionario creda.
Una crisi di proporzioni maggiori incombe perciò sull’Unione Europea e i mercati finanziari non ne sono consapevoli. Cile e Argentina sono riuscite a superare la fase di transizione perché avevano una forza-lavoro in crescita – e di qui una base da tassare – e un assetto dello stato che poteva essere privatizzato per liquidare le pensioni correnti e ridurre impegni di spesa cristallizzati a lungo termine.
Con la prospettiva di un crollo della manodopera, la sfida per l’Europa sarà ancora più dura. Per alcuni paesi come la Germania, dove le pensioni di stato coprono oltre l’80% delle entrate dei pensionati (rispetto al 45% della Gran Bretagna) potrebbe già essere troppo tardi per una svolta ad un sistema privato.
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