
Piccoli critici crescono in casa (a Frozen 2 un misero 6)

Articolo tratto dal numero di gennaio 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Per Natale un Gesù Bambino particolarmente cinefilo ha regalato al mio secondo figlio di dieci anni un taccuino per le recensioni di film. Ha una bella copertina nera con disegnata la sagoma di una seggiola da regista e delle pagine bianche, già divise per titolo, cast, genere eccetera eccetera.
È un bel regalo e Martino ci ha già messo mano. Ha scritto una recensione abbastanza positiva per Shaun The Sheep 2 (voto 7, per il mio amico Luca) e altre due così così (un 6 striminzito) per Frozen 2 e per Un sogno per papà, che in realtà è un film molto bello ma a lui non piace troppo il calcio.
Comunque, le sue recensioni si concludono sempre con un «consigliato per il mio amico tal dei tali». Mi ha colpito ’sta cosa: vedere un film per un amico. Quando ho iniziato vent’anni fa per puro caso a Tempi, quel che mi dissero Amicone & Co. fu proprio questo: scrivi avendo in mente i tuoi amici, tua moglie. Sono partito e l’ho fatto: per un certo periodo mi sono anche tenuto il conto di tutti i film visti, centinaia su centinaia su centinaia. Però era (ed è) entusiasmante uscire dal cinema e telefonare dicendo “ho visto questa cosa per te”. O guardare Le vite degli altri e pensare: ecco, vorrei amare mia moglie, vorrei la vita come la ama il tizio della Stasi. Sono sicuro che sia stato questo a non farmi impazzire, a non farmi diventare come gli altri, quelli per cui il cinema è vita e la vita uno schifo.
Così è più bello, così ha più senso. Non c’è film che non sia collegato a un volto, una persona, magari a un litigio furioso. È più bello ricordarsi di Million Dollar Baby di Clint Eastwood e della guerra ingaggiata contro chi lo bollava come spottone pro eutanasia (e il contesto? E lui che perde tutto, si perde letteralmente nel nulla? Come la mettiamo?, mica è Mare dentro di Alejandro Amenábar, quello sì uno spot cinico e ideologico).
È stato così per tutti i film: dal primo memorabile, ma solo per motivi estetico-fisici, Malèna di Giuseppe Tornatore fino al senile The Irishman e certe cose recenti che si vedono su Netflix.
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Storia di un matrimonio
Le sfumature del dolore che non scade mai nel cinismo
Storia di un matrimonio è un film bellissimo, a metà tra certi melodrammi intimisti degli anni Settanta e i drammoni di Bergman, forse c’è anche qualcosa di Allen di cui il regista Noah Baumbach è una sorta di epigono. Ci sono due attori coi fiocchi, Scarlett Johansson e soprattutto Adam Driver, voce da baritono e grande attitudine alle sfumature. In realtà è tutto un film di sfumature nel dolore e nella gioia di una vita matrimoniale messa a dura prova.
L’inizio folgorante mette giustapposte due lettere in cui i coniugi descrivono con una tenerezza raramente vista al cinema pregi e difetti dell’altro. Gli errori, le cadute ma il tutto guardato con una simpatia umana che pare incrollabile. E invece tutto crolla e le macerie sono ovunque ma mai lo sguardo è di chi vuol giudicare.
Baumach segue con affetto i suoi due personaggi che sbagliano molto ma anche si perdonano molto. Sbagliano perché si affidano a degli avvocati lupi che complicano dannatamente le cose, perché si dicono delle cose imperdonabili, perché sono cocciuti e testardi ma non riescono mai a chiudere la porta, non riescono mai a dirsi che è stato tempo buttato.
Mai cinici, anzi indomiti nel fronteggiare una tempesta infinitamente più grande di loro.
Regia di Noah Baumbach, con A Driver e S. Johansson
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Il vizio della speranza
Coltivare l’umanità dove tutto è insensato
Una donna cerca di uscire dalla situazione di degrado in cui vive.
Film molto forte nell’ambientazione squallida che ricorda tanto Dogman di Matteo Garrone. I temi affrontati sono tutti declinati al femminile perché il film è totalmente popolato da donne (tranne due uomini, in ruoli marginali).
L’idea è tutta nel titolo: coltivare una speranza laddove nulla ha senso e niente ha dignità. L’incipit è folgorante, il finale un po’ didascalico ma Edoardo De Angelis, che già aveva ben diretto Indivisibili, ha buona mano e sicuro avvenire.
Regia di Edoardo De Angelis, con con Pina Turco, Massimiliano Rossi
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The Irishman
Epopea di grandi attori ma un po’ lunga
Decenni di storia criminale attraverso gli occhi di un malavitoso.
Epopea nostalgica con praticamente tutti gli attori che negli anni hanno lavorato per Martin Scorsese, da Harvey Keitel fino al grande Joe Pesci. Tutti invecchiati, tutti ancora grandi e gloriosi. Il film è troppo lungo, ha una parte centrale evitabile nonostante Al Pacino e la bella sfida cinefila con Robert De Niro.
Non è il miglior Scorsese (e neppure il miglior De Niro, anche se gli ultimi anni sono stati un disastro per Bob), ma è un pezzo di cinema vero, come non se ne vedeva da anni.
Regia di Martin Scorsese, con Robert De Niro, Al Pacino, Joe Pesci
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Un sogno per papà
Il rapporto con il padre in un racconto delicato
Un giovane calciatore finge di essere stato preso dall’Arsenal per ritrovare il rapporto col padre.
Bella storia raccontata da Julien Rappeneau ad altezza di ragazzo, con al centro, più che un pallone rotolante e il mondo del calcio, il rapporto padre-figlio.
È un film delicato nel raccontare tutte le fragilità di un padre tra alcool, disoccupazione e una brutta separazione, e intelligente nell’usare il calcio non come un fine, come spesso accade con risultati tra l’altro assai modesti, ma come un mezzo per riannodare le questioni vere della vita.
Regia di Julien Rappeneau, con François Damiens, Maleaume Paquin
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