Il realismo e la fede del cardinale Pizzaballa sul conflitto a Gaza

Di Rodolfo Casadei
21 Agosto 2024
«Il 7 ottobre e la guerra sono un punto di non ritorno per israeliani e palestinesi, sarà faticoso ricominciare. I cristiani devono parlare chiaro senza diventare parte dello scontro». Le parole del patriarca di Gerusalemme al Meeting
Pizzaballa Scholz Meeting
Il patriarca di Gerusalemme, cardinale Pierbattista Pizzaballa, intervistato dal presidente del Meeting di Rimini, Bernard Scholz, nell'incontro inaugurale della 45ma edizione (foto Ansa)

Non è solo per la cronica drammatica attualità delle vicende della Terra Santa che Pierbattista Pizzaballa, prima capo della Custodia francescana e poi patriarca di Gerusalemme e cardinale, è stato invitato a parlare al Meeting di Rimini sei volte negli ultimi 18 anni. C’è un’affinità più profonda, che si intuisce chiaramente quando Bernhard Scholz, il presidente del Meeting, spiega che gli incontri, le mostre e il titolo della 45ma edizione (“Se non siamo alla ricerca dell’essenziale, allora cosa cerchiamo?”, tratto da Il passeggero di Cormac McCharty) hanno il senso di rendere chi li propone e chi li accoglie «liberi, responsabili e irriducibili di fronte a qualunque potere».

Le parole di Pizzaballa al Meeting di Rimini

Sono esattamente la caratteristiche che il pastore latino di Gerusalemme, intervistato per quasi un’ora dal presidente del Meeting sul tema “Una presenza per la pace”, lascia intendere di possedere: libero, responsabile (responsabilissimo) e irriducibile di fronte a qualunque potere. Che poi vuol dire incarnato, pratico, non astratto, concreto nell’imitazione di Cristo secondo lo stile di san Francesco.

Come esemplifica la risposta all’ultima domanda, quella sulla risposta da dare a chi chiede ai credenti ragione della sofferenza dei bambini, vittime o orfani a causa della guerra. «Non c’è risposta», è risoluto il cardinale. «A volte abbiamo ridotto la fede a panacea che risolve ogni male. Ebbene, anche nella fede cristiana c’è un momento di tragicità. Certo, prima di chiedere conto a Dio della sofferenza dei bambini dobbiamo chiederlo agli uomini: è per la loro malvagità che i bambini muoiono. Ma poi possiamo rivolgere la domanda a Dio, a patto che insieme poniamo gesti di amore che rispondano a quel male. La fede non è la riposta a tutte le domande. La fede è la relazione dentro alla quale tutte le domande hanno spazio».

«Cristiani politicamente inincidenti, siamo chiamati alla parresia»

La concretezza, il realismo e il senso pratico come modalità operative di una fede genuina sono l’origine delle risposte disarmanti che Pizzaballa dà alle domande tipiche sul ruolo mediatore dei cristiani nel conflitto. «Nessuno di coloro che vivono e si scontrano sul posto è in attesa che la Chiesa risolva i problemi del conflitto. Politicamente siamo inincidenti. Si tratta di stare lì senza la pretesa di riuscire incidenti, ma per dire la nostra parola ed essere presenti. La domanda che lì da noi viene posta più spesso è: “dove eri tu quando…?”. Dobbiamo poter rispondere: “ero qui, ero lì”. Siamo chiamati alla parresia, al parlar chiaro, ma senza diventare anche noi parte dello scontro».

Stesso suono di campana per la domanda sul ruolo delle religioni presenti e dei loro leader: «Dopo il 7 ottobre il dialogo interreligioso è in crisi, non ci incontriamo più pubblicamente o ufficialmente, facciamo fatica anche a incontrarci ufficiosamente. In questi anni sono state fatte tante ottime cose, il documento di Abu Dhabi sulla fratellanza è bellissimo ma, se posso permettermi, dopo il 7 ottobre e dopo Gaza il dialogo interreligioso dovrà essere meno di élite e più delle realtà del territorio. I leader delle religioni dovrebbero aiutare le proprie comunità a non ripiegarsi su stesse e sulla loro esclusiva narrazione, ma a riconoscere l’altro da sé. Come diceva un rabbino, “nessuna religione è un’isola”: Ecco, oggi siamo tornati a essere isole».

Non è ancora il momento di parlare di perdono

Più articolata, delicata e complessa è la risposta alla domanda trabocchetto su perdono e giustizia: il cristianesimo è imperniato sul perdono, ma come si può perdonare quando l’ingiustizia permane? Qui Pizzaballa ha risposto articolando livelli e momenti: «Al livello della persona e del suo rapporto con Dio, perdono e giustizia sono praticamente sinonimi. Pensiamo al perdono di Gesù sulla croce ai suoi carnefici, ai martiri di tante epoche che hanno perdonato i loro stessi assassini. Ma le persone fanno parte di comunità, e al livello comunitario la questione diventa più complicata: ci sono di mezzo i valori della dignità e dell’uguaglianza di una comunità rispetto alle altre, e allora perdonare senza che l’aspetto comunitario venga messo a tema non è possibile».

«A questo riguardo», ha continuato il patriarca, «ci vogliono tempo, un processo di guarigione, il riconoscimento del male commesso e non solo di quello altrui, la verità. E tutto questo deve avvenire al livello delle comunità, come abbiamo visto fare in Sudafrica con la Commissione per la Verità e la riconciliazione dopo la fine dell’apartheid. Il singolo si trova in una posizione insostenibile: se oggi un palestinese pratica il perdono personale nell’immediato, appare come uno che giustifica la continuazione della guerra; se non perdona, si ripiega nella recriminazione e nello spirito di vendetta. La comunità cristiana deve portare il tema del perdono nel dibattito sociale, ma non ora. Però quando verrà il momento, a guerra finita, dovremo farlo, perché è l’unica via per superare l’impasse».

«I cristiani in Terra Santa come i discepoli nel Getsemani»

È a tal fine che il patriarca ha evocato la necessità della purificazione della memoria: «Purificare la memoria significa riconoscere che anche noi abbiamo sbagliato, e che se vogliamo sviluppare le nostre relazioni con l’altro, dobbiamo riconoscere quegli errori, che non cancellano tutto il resto di buono che fa parte della nostra storia ed identità. È quello che la Chiesa cattolica ha fatto con gli ebrei». Per quanto riguarda l’oggi in Terra Santa, «se restiamo ciascuno dentro alle nostre narrative escludenti, non usciremo mai dalla contrapposizione. Dobbiamo rileggere la storia per vivere meglio l’oggi».

La Chiesa è particolarmente sensibile a questi temi perché i suoi non numerosi fedeli (l’insieme delle Chiese cristiane totalizza il 3 per cento di tutti coloro che vivono in Israele e nei Territori palestinesi) si trovano non per loro volontà nelle trincee opposte:

«Ci sono cristiani a Gaza sotto le bombe israeliane, e ci sono cristiani che fanno il servizio militare nell’esercito israeliano in questo momento. Sono in gioco nello stesso tempo l’appartenenza alla tua comunità umana, al tuo popolo, e l’appartenenza a Cristo che dovrebbe darti uno sguardo diverso, più vasto, ma non è automatico! I cristiani in Terra Santa oggi sono come i discepoli presso Cristo nel Getsemani: c’erano quelli che dormivano (oggi parlerei di un devozionismo sofisticato), quelli che fuggivano, cioè quelli che vedevano cosa succedeva ma non volevano farci i conti (accade anche qua oggi) e quelli che mettono mano alla spada, cioè che vogliono partecipare alla lotta, fare politica attiva. La scelta di Gesù è stata quella di consegnarsi. Anche per noi oggi si tratta di dare la vita, di mettere la nostra vita nelle mani di Dio. Alla mia comunità dico sempre che noi non abbiamo tutte le risposte per la situazione che stiamo vivendo, ma abbiamo l’indirizzo a cui spedire le domande: Dio. Rivolgiamo le nostre domande a Lui, Lui che dà senso a tutto».

Il giudizio di Pizzaballa sul 7 ottobre e la guerra di Gaza

Tutto questo però sarebbe un cercare di aggiustare con le parole qualcosa che si è rotto in forza di brutali fatti se non fosse accompagnato da un giudizio lucido e spietato su quello che è accaduto e che sta accadendo: «L’impatto che il 7 ottobre e la guerra di Gaza hanno avuto sulla gente del posto è unico. Per gli ebrei il 7 ottobre è un punto di non ritorno, perché lo stato di Israele è nato come oasi sicura per gli ebrei sopravvissuti all’Olocausto; per i palestinesi ugualmente quello che succede a Gaza è senza precedenti, perché non si erano mai contate tante vittime palestinesi in decine di anni di crisi sanguinose. Pertanto i sentimenti di odio, vendetta, sfiducia verso l’altro sono al culmine».

«L’incapacità di riconoscere l’esistenza l’uno dell’altro non è mai stata così radicale», ha spiegato Pizzaballa. «Viene in mente l’Isaia della caduta di Babilonia: “Io, e nessun altro all’infuori di me” (Is 47,8). Il linguaggio del rifiuto reciproco è diventato un fatto quotidiano. La guerra finirà, in un modo o nell’altro, ma dissipare la sfiducia verso l’altro e il disprezzo profondo sarà faticosissimo».

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