Poiché un bambino è nato per noi
Professore, qual è il suo bilancio del viaggio di Giovanni Paolo II? Il viaggio del Papa in Medio Oriente è stato molto positivo. E sinceramente non capisco porprio quanti hanno cercato di dare a questa visita un significato particolarmente politico. Penso ad esempio alla discussione che ho avuto qualche sera fa, ospite della vostra Lilly Gruber, in una trasmissione su Rai1. Il collega palestinese si è impegnato a caricare il viaggio del Papa di un significato esclusivamente politico. Ha passato tutto il tempo a ripetere che il Papa ha voluto riconoscere i diritti dei palestinesi, dei rifugiati, la necessità dello stato palestinese e che dicendo queste cose il Pontefice ha svolto il suo ruolo di leader politico di statura internazionale. Io da parte mia ho tentato di convincerlo che si è trattato di un viaggio dove la parte politica è venuta, per così dire, in aggiunta, dato che essendo Giovanni Paolo II un leader internazionale così importante e carismatico non può sottrarsi, anche se lo volesse, a questioni connesse al conflitto in Medio Oriente. Ma io ho letto con molta attenzione tutti i suoi discorsi e non vi ho trovato riferimenti espliciti né termini strettamente politici. Per esempio: la parola senza dubbio più in voga in queste terre, la parola più carica di significati politici è il termine “sovranità”: si discute su chi abbia la sovranità su Gerusalemme, chi sulla spianata del Tempio, chi su una determinata porzione di terra in Cisgiordania… Bene, il Papa non ha mai menzionato la parola “sovranità”, né nei discorsi, né nei dialoghi con le autorità. E mi pare giusto dal suo punto di vista: il Papa ha evitato di diventare parte del conflitto attraverso un riconoscimento politico più forte di una parte piuttosto che dell’altra e ha parlato in termini di pace, amore e giustizia per tutti. I suoi discorsi sono stati molto belli e, da politologo, direi anche un’opera maestra della diplomazia vaticana.
Vede, dato che ognuno in questa regione cerca costantemente di enfatizzare la propria situazione è quasi impossibile viaggiare per il Medio Oriente senza cadere in qualche trappola e dare così l’impressione di essere schierati con una delle parti in conflitto. A me è sembrato un fatto veramente straordinario che il Papa non si sia lasciato intrappolare in questa logica…
A noi per altro ha colpito la reazione di una persona come il Nobel Elie Wiesel, il quale non è mai stato tenero con il cattolicesimo, che una volta disse “non ci potranno mai essere relazioni normali tra cristiani ed ebrei” e che oggi invece ammette “ho dovuto cambiare idea sul Pontefice”. Come si spiega? C’è stato un fatto che indubbiamente ha colpito il mondo ebraico: il Papa dal primo momento in cui è atterrato in Israele ha parlato dello Stato di Israele. Certamente è il frutto di un riconoscimento tra il Vaticano e Israele, dell’allacciamento di normali relazioni diplomatiche e di un livello di fiducia che si è sviluppato in questi ultimi anni, a partire dall’accordo Fondamentale del ’93. Si tratta di una formula di cortesia protocollare, ma che è significativa e sancisce una situazione di normalità. Il capolavoro del Papa è che ha parlato di tutto ciò con molta finezza e misura. Un’altra cosa assai apprezzata dagli israeliani è stata la sua attitudine alla pacificazione, che si è dimostrata prima del suo arrivo in Terrasanta da pellegrino con le sue dichiarazioni tese a chiudere la polemica millenaria tra ebraismo e cristianesimo in generale – ma cattolicesimo in particolare – fino alla domanda di perdono per quanto è successo nella storia, in una forma molto generale e istituzionale, senza menzione di nomi, evitando soprattutto la particolarizzazione del ruolo del Vaticano durante la Seconda guerra mondiale che è effettivamente un punto su cui ci sono effettivamente versioni contrastanti. E poi ha fatto una profonda impressione nell’opinione pubblica israeliana quel suo gesto al Muro del pianto dove lui è andato e, in accordo con l’abitudine popolare ebraica di scrivere su piccoli fogli di carta domande rivolte direttamente a Dio, ha infilato in una fessura del Muro i suoi desideri di pace e di perdono tra le diverse religioni.
E davanti al gesto compiuto da Giovanni Paolo II visitando il Memoriale dell’Olocausto lo scrittore Amos Oz ha parlato di “una rivoluzione epocale, una rivoluzione di portata storica”…
Le dirò di più. C’è stata anche una testimonianza assai commovente di una signora di una certa età che nel ’45 era stata liberata da un campo di concentramento, ed era debolissima, tra la vita e la morte, ma voleva raggiungere a tutti i costi Cracovia. Questa signora si è trovata come compagno di cammino il giovane Wojtyla, che l’ha caricata sulle sue spalle e l’ha accompagnata per un lungo tratto di strada fino alla stazione. Lei stessa ha detto che se non avesse incontrato quell’uomo che ora rivedeva come Papa sarebbe probabilmente morta, perché non avrebbe avuto le forze per compiere quel viaggio. Che siano venute alla luce queste cose, e in modo così naturale, ha avuto un grande impatto sul popolo israeliano, che davvero ha un profondo rispetto verso questo Papa.
Soprattuto colpisce il rispetto nei confronti di un leader religioso venuto dagli ambienti più laici dell’ebraismo…
Ha detto bene, i laici israeliani – e io sono uno di quelli – sono quelli che hanno avuto un impatto particolarmente positivo con il Pontefice. La mentalità laica è stata molto colpita dal Papa, dal suo messaggio di riconciliazione tra ebrei e cattolici, ma anche dalla sua stessa personalità. Prenda gli stessi ministri del governo: hanno fatto a gara per stare vicino al Pontefice e parlare con lui. Ed è stata davvero sorprendente la deferenza con cui lo stesso premier Barak ha avvicinato il Papa, gli si è seduto vicino, ha dialogato con lui in privato, gli ha esposto sinteticamente il punto dei negoziati di pace. Le assicuro che è uno spettacolo che normalmente si vede solo quando arriva Clinton. E lei sa chi è Clinton.
E il popolo israeliano, secondo lei, come ha percepito questa presenza? Le dirò una cosa che le sembrerà banale, ma che è invece significativa in un paese come Israele. Quando arrivano in visita a Gerusalemme anche i grandi capi stato, la gente solitamente è più infastidita che interessata. E questo perché per noi che viviamo in città questo genere di visite significa misure di sicurezza, traffico in tilt, strade chiuse, insomma un sacco di problemi anche solo per andare al lavoro. In questo caso, nonostante le misure di sicurezza siano state più imponenti che in altre occasioni, la gente ha dimenticato il caos della viabilità e il fastidio di una città sotto pressione. La gente è stata presa da un fascino che le ha fatto dimenticare i problemi quotidiani e le ha fatto pensare a cosa più importanti.
Padre Jaeger, dunque il viaggio del Papa in Terrasanta è stato un successo al di là di ogni aspettativa..
Non è stato un successo, è stato un trionfo, imprevedibile soltanto per chi non ha seguito questo pontificato. Il Papa ha saputo trionfare in tutti i suoi viaggi, anche i più difficili. Anche questa volta si è conquistato i cuori in Israele della maggioranza. Un commento tipico che ho letto sulla stampa israeliana è questo: “Finalmente abbiamo visto un vero leader religioso, un vero uomo di Dio, perché i nostri non lo possono essere? Abbiamo visto finalmente un uomo di Dio che predica la pace e la riconciliazione invece di promuovere la divisione e gli interessi puramente settoriali”. Si è trattata per la grande maggioranza di Israele di una epifania riguardo a ciò che significa essere credente in Dio, perché in Medio Oriente la divinità è regolarmente invocata per scopi ben diversi.
Da cittadino ebreo e – caso ad oggi unico al mondo – da prete cattolico di nazionalità israeliana, qual è l’aspetto che più l’ha colpita di questo pellegrinaggio? Gli incontri ufficiali che sono stati una specie di iconografia della normalizzazione già compiuta dei rapporti: l’arrivo, la partenza, l’incontro col presidente, col primo ministro, coi ministri… è stata la conferma visiva di ciò che di per sé sarebbe già avvenuto: la normalizzazione dei rapporti tra la Santa Sede e lo stato di Israele. A suo tempo, ancora nel ’93, in occasione della firma dell’Accordo Fondamentale, quando mi hanno domandato come mi sentivo e cosa significava per me, dicevo: “io mi sento come un cattolico italiano all’indomani dei Trattati Lateranensi”. La normalizzazione dei rapporti ha avuto ora questa conferma così visuale, chiara. Naturalmente poi nella normalità dei rapporti ci sono anche problemi, questioni da trattare, ci possono anche essere disaccordi, ma tutto all’insegna della normalità. Questo per me è stato particolarmente significativo.
Da qui in avanti, cosa si aspetta dall’avvenimento di questo rapporto nuovo tra ebraismo e cattolicesimo reso possibile dalla persona del Papa? Da qui in avanti vorrei che la Chiesa accogliesse e facesse fruttificare questa nuova conoscenza che il popolo di Israele ha della Chiesa stessa. Vorrei inaugurare una presenza più visibile della Chiesa in Israele, una continuazione del dialogo con la società ebraica attraverso organismi, associazioni, istituzioni e personale appropriato per portare avanti il dialogo. Sarebbe infatti un peccato che a Papa partito questa conversazione cessasse di nuovo. Per me il compito ecclesiale più importante è quello di pensare a forme di presenza culturale all’interno della società israeliana. Poi, naturalmente, a livello ufficiale c’è un compito immediato per i rapporti così rinsaldati, ed è la questione di Nazareth. È assolutamente doveroso che il governo di Israele abbia il coraggio di annullare la decisione di costruire quella moschea alle porte della basilica dell’Annunciazione. Un atto dovuto, che se non fosse compiuto, io personalmente lo sentirei come un rifiuto di tutto quello che è stato compiuto per creare rapporti normali e cordiali.
Ma a parte questa, che è una situazione di emergenza, c’è naturalmente il foro ordinario dei rapporti bilaterali che è la Commissione bilaterale permanente di lavoro incaricata dell’elaborazione della serie di trattati previsti dall’accordo fondamentale e che attualmente si occupa soprattutto del trattato sulle questioni fiscali. Quindi mi auguro che questi lavori possano procedere con quella praticità che ci si può augurare in un clima di rapporti corretti e amichevoli. Devo dire un’altra cosa, obbligata, e cioè che meritano elogi personaggi del governo israeliano, soprattutto il primo ministro Barak, ma anche l’intero apparato governativo che ha riservato tanta attenzione al pellegrinaggio pontificio e non ha risparmiato fatica e neppure spesa per renderlo un successo, almeno per quello che dipendeva da loro. Hanno saputo farlo con buona grazia e accettare i discorsi, le affermazioni, nello spirito in cui sono stati pronunciati. Certamente anche se colpisce tanto l’accoglienza riservata al Papa in Israele, non si può non soffermarsi pure sul significato per i Palestinesi che si sono sentiti confortati e sollevati dalla bontà e dalla grande carità manifestata dal Papa nei loro riguardi.
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