
POLENTA E MORATTI
La montagna fa uno strano effetto. Filtrato da una razione abbondante di polenta alla valdostana il mondo di laggiù appare una cosa lontana e superflua. La fontina che forma quella croccante crosta induce, oltre al colesterolo, al disinteresse globale. Tremonti non c’è più? Chissenefrega, un ministro delle Finanze ha mai fatto qualcosa per me? Berlusconi annaspa? Siamo sopravvissuti al Prodi 1, la sfangheremo anche col Prodi 2, al massimo vi ribeccherete Santoro (io guardo solo i film, meglio se americani anni ’40 e ’50). Tutto mi appare così estraneo, mentre spalmo un po’ di miele sul pane nero. Perfino la solita estate del calcio, tra proclami presidenziali, club allo sfascio, invenzioni di mercato, arbitri inquisiti, processi al doping, mi scorre stancamente sotto il naso, intento ad assorbire il profumo di una grappa alla liquirizia. Però, improvvisamente, ecco che qualcosa mi strappa all’esilio rupestre. È lui, sì, ancora lui, Massimo Moratti. Eccolo lì, col figlio al seguito (quello che scoprì Vampeta, acciderbolina) a ripetere quello che va dicendo d’estate da dieci anni: «Mai visto lavorare così, questo è il tecnico giusto per l’Inter, c’è un grande entusiasmo, i giocatori sono eccezionali». Mi arrendo compagno Massimo, sei grande. Solo le tue cazzate potevano ritardare l’attacco a un paio d’etti di lardo di Arnad.
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