
Putin si prende la Crimea? Sì, ma c’è anche un’altra invasione: «Dagli anni 90 la Nato si espande verso la Russia»
Barack Obama, John Kerry, Hillary Clinton e la maggior parte della stampa americana hanno paragonato le iniziative militari e politiche promosse da Putin in Crimea alle invasioni e alle annessioni di Hitler e hanno presentato il capo di Stato russo come un uomo di un’altra epoca, incapace di gestire le relazioni internazionali nell’era della globalizzazione. Ma alcuni dei più importanti accademici americani esperti di questioni russe dicono che no, l’Occidente sta raccogliendo quello che nelle relazioni Est-Ovest ha seminato negli ultimi venticinque anni dopo la fine del socialismo reale e che qualsiasi governo e presidente russo – e non solo l’orribile Putin – si sarebbero trovati costretti a contrastare. In Europa fanno loro eco commentatori di geopolitica italiani, essendo l’Italia il paese dell’Alleanza Atlantica che meglio di tutti – persino dei tedeschi – ha inteso la specificità russa.
Ha cominciato Stephen Cohen, docente emerito delle università di Princeton e New York e consigliere per gli affari sovietici al tempo del presidente G. Bush. Mai avaro di commenti sulla recente crisi, ha spiegato a Newsweek: «Quando negli anni Novanta Clinton ha cominciato ad allargare la Nato in direzione della Russia, ho ammonito che quella politica avrebbe portato a una situazione come quella che stiamo vivendo. Ho scritto sul Washington Post e nei miei libri che se continuavamo in quel modo, saremmo stati come un Pac-man occidentale che si mangia tutto finché arriva al confine con la Russia. Abbiamo raggiunto i confini della Russia al tempo della presidenza Bush, quando le repubbliche baltiche sono diventate membri della Nato. Poi c’è stato l’episodio della Georgia nel 2008: lì abbiamo oltrepassato la linea rossa. Poi l’abbiamo fatto di nuovo in Ucraina. Non comprendo come la gente faccia a non capire che se per vent’anni espandi un’alleanza militare con le sue componenti politiche – comprendente una difesa missilistica, Ong che sono finanziate dai nostri governi e che si coinvolgono nella politica russa, rivoluzioni nei paesi che confinano con questa alleanza – alla fine vai a sbattere contro una linea rossa che, diversamente da quello che fa Obama con le sue linee rosse, “gli altri” faranno rispettare. L’Ucraina è sempre stata il premio del torneo per questa gente. Era quello che volevano, ma così facendo si sono spinti troppo in là. Qualunque leader russo dotato di legittimità avrebbe fatto qualcosa di simile a quello che Putin sta facendo. Qualunque leader avrebbe reagito».
Cohen ne ha anche per l’Unione Europea. Ha scritto in un articolo su The Nation: «Lo scontro eccezionalmente pericoloso fra le due Ucraine (quella filo-occidentale e quella filo-russa, ndr) non è stato acceso dalla doppiezza negoziale di Yanukovich, o da Putin, ma dall’imprudente ultimatum dell’Unione Europea in novembre, quando si è voluto imporre al presidente di un paese profondamente diviso in se stesso di scegliere fra l’Europa e la Russia. La proposta di Putin per un accordo tripartito, quasi mai menzionata nei media, è stata risolutamente respinta dai dirigenti americani ed europei. Che la persistente politica di espansione verso Est di Washington e di Bruxelles sia saggia o imprudente, è comunque essa a essere ingannevole e non l’offerta finanziaria di Putin in dicembre per salvare l’economia ucraina dal collasso. La proposta “di civiltà” dell’Unione Europea, per esempio, comprende clausole di “politica di sicurezza”, quasi mai menzionate, che renderebbero evidentemente subalterna alla Nato l’Ucraina».
Le ragioni storiche
Per avere detto queste e altre cose, Cohen è stato definito da molti commentatori «un apologeta di Putin». Non sembra essere l’unico, anche se è quello più assertivo. John Mearsheimer, che insegna all’università di Chicago ed è uno dei più noti scienziati politici delle relazioni internazionali di scuola realista (il suo è definito «realismo offensivo»), ha scritto cose simili sul quotidiano americano antiputiniano per eccellenza, il New York Times: «L’amministrazione Obama ha fatto un errore fatale appoggiando i manifestanti ucraini, perché questo ha aggravato la crisi e ha portato alla caduta del presidente Yanukovich. L’ambasciatore americano in Ucraina, che aveva incoraggiato le proteste, ha proclamato quel momento “un giorno per i libri di storia”. Putin, ovviamente, non ha visto le cose nello stesso modo. Ha visto questi sviluppi come una minaccia diretta agli interessi strategici cruciali della Russia. Chi può dargli torto? Dopo tutto gli Stati Uniti, che sono stati incapaci di lasciarsi alle spalle la Guerra Fredda, hanno trattato la Russia come una potenziale minaccia sin dai primi anni Novanta e hanno ignorato le proteste circa l’espansione della Nato e le sue obiezioni al piano americano di costruire un sistema difensivo missilistico nell’Europa orientale. Ci si aspetterebbe che i politici americani comprendano le preoccupazioni della Russia circa l’adesione dell’Ucraina a un’alleanza ostile. Dopo tutto, gli Stati Uniti sono molto legati alla dottrina Monroe, che ammonisce le altre grandi potenze a stare fuori dall’emisfero occidentale. Ma pochi politici americani sono capaci di mettersi nei panni di Putin. Il punto di vista di quest’ultimo è comprensibile. Poiché non esiste alcun governo mondiale a proteggere gli stati l’uno dall’altro, le maggiori potenze sono estremamente sensibili alle minacce, specialmente quelle prossime ai loro confini. E a volte agiscono rudemente per fare fronte a potenziali pericoli. Il diritto internazionale e i diritti umani passano in secondo piano quando sono in gioco questioni vitali di sicurezza. Obama farebbe bene a smettere di consultarsi con gli esperti di diritto e a cominciare a pensare in termini strategici. Se lo facesse, comprenderebbe che punire i russi nel mentre che si cerca di trascinare l’Ucraina nel campo occidentale serve solo a peggiorare le cose».
George Friedman, un altro scienziato politico americano, noto per essere passato dalla cattedra del Dickinson College in Pennsylvania alla poltrona di fondatore e amministratore delegato di Stratfor, un’impresa di intelligence privata e di analisi strategiche, ha esposto spiegazioni del comportamento della Russia nella crisi ucraina simili a quelle di Cohen e Mearsheimer, con un pizzico di riferimenti storici in più sulle pagine di Forbes: «Storicamente la Russia si è sempre protetta con la sua profondità. Ha mosso i suoi confini il più a ovest possibile, e questo ha disincentivato gli avventurieri – o, come con Hitler e Napoleone, li ha distrutti. La fine dell’Ucraina come cuscinetto verso ovest lascia la Russia senza questa profondità e ostaggio delle intenzioni e delle capacità dell’Europa e degli Stati Uniti. Alcuni pensano che le paure della Russia siano antiquate. Nessuno vuole invadere la Russia, nessuno può farlo. Questi approcci sembrano sofisticati ma sono in realtà semplicistici. Gli intenti hanno relativamente poco peso quando bisogna valutare una minaccia. Possono cambiare molto in fretta. (…) Il punto di vista della Russia è pessimista. Se la Russia perde la Bielorussia o l’Ucraina, perde la sua profondità strategica, sulla quale si fonda gran parte della sua abilità a difendersi. Se l’intenzione dell’Occidente non è ostile, allora perché è così ansioso di vedere il cambio di regime in Ucraina? Potrebbe essere l’amore profondo per la democrazia liberale, ma dalla prospettiva di Mosca le ragioni sembrano molto più sinistre».
L’importanza dell’egemonia
Sembrano discorsi di buon senso, ma né gli americani né gli europei li apprezzano, obnubilati dalla retorica delle piazze in lotta per i diritti umani e la vera democrazia. Dimenticando che l’Ucraina ha avuto già un primo ministro (Yulia Timoshenko) e un presidente (Viktor Yuschenko) filo-europei e filo-americani, prova dunque che a Kiev un certo grado di libertà c’era. Perché gli americani facciano finta di non capire lo spiega proprio Mearsheimer nel suo famoso The tragedy of Great Powers Politics, là dove scrive che «Data la difficoltà di determinare quanto potere è sufficiente per oggi e per domani, le grandi potenze riconoscono che il modo migliore per garantire la loro sicurezza è di ottenere l’egemonia ora, eliminando così qualunque possibilità di sfida da parte di un’altra grande potenza. Solo uno stato incauto si lascerebbe sfuggire l’opportunità di essere l’egemone nel sistema perché pensa di avere già abbastanza potere per sopravvivere».
Ma gli europei? Una buona spiegazione la fornisce Lucio Caracciolo, che ha colto l’occasione della crisi di Crimea per riesumare un suo editoriale del 2008 che, letto oggi, aiuta a capire perché l’Unione Europea abbia compiuto le mosse avventate che ci hanno portato all’attuale crisi dei rapporti internazionali. Anzitutto il fondatore di Limes definiva la diversità irriducibile della Russia, che molti in Europa occidentale hanno perso di vista: «La Federazione Russa è un elemento del tutto peculiare nella variopinta tavola di Mendeleev delle potenze mondiali. Come impero multinazionale di impronta russo-ortodossa, ma anche “parte del mondo islamico” esteso ben oltre le steppe centroasiatiche fino all’Artico, al Pacifico e alla frontiera cinese, è un soggetto sui generis, non omologabile ad altri. Né solubile in alleanze, come la Nato, che implicano la rinuncia alla sovranità in favore del paese leader. Nelle parole di Putin, “la Russia sarà indipendente e sovrana, o non sarà”».
L’illusione europea
Il tema della sovranità è ciò che oggi maggiormente separa l’Unione Europea dalla Russia. L’illusione tutta europea che il mondo intero sia entrato nell’era della post-sovranità spiega la noncuranza incosciente con cui l’Unione si è spinta verso Est senza mai porsi nessun interrogativo di tipo geopolitico. «Il fattore geopolitico oggi più importante in assoluto è il ritorno della Russia a fattore di potenza in Europa. Sul piano globale, la competizione/cooperazione è già multipolare, ma senza un polo europeo. L’Unione Europea è troppo eterogenea per aspirarvi. Soprattutto, non è né vuole diventare Stato. Influenti ideologi veterocontinentali ne fanno un vanto. Fulminando i “nostalgici di Vestfalia”, che non capiscono come la storia abbia condannato lo Stato nazionale. Sarà. A nessuna delle potenze che contano o che aspirano a farlo è però mai passata per la testa una simile idea. Non agli americani, non ai cinesi. Meno ancora ai russi. I quali osservano meravigliati il ripudio della sovranità da parte del continente che l’ha inventata. Putin, acido: “Io raccomando di riflettere sulla democrazia sovrana. È un concetto che potrebbe interessare l’Unione Europea e ciascun paese europeo”. Sovranità è per Putin, come per qualsiasi leader non europeo (e per gli europei insensibili al politicamente corretto), sinonimo di indipendenza. Da cui sola può scaturire l’interdipendenza, in quanto relazione fra soggetti sovrani. Mentre fra attori e non-attori non si dà rapporto».
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bellissimo articolo!