
Quando si sente Profumo di Generali
Come è possibile che un banchiere, fino a poche settimane fa additato come il vero campione della frontiera più avanzata in Europa del sistema creditizio italiano, debba rilasciare dichiarazioni in cui esplicitamente afferma «io non sono il male»? Stiamo parlando di Alessandro Profumo, naturalmente, il capo operativo di Unicredit, la prima banca italiana (assorbita anche Capitalia), l’istituto che più di ogni altro nel recente passato aveva abbinato un’imponente crescita sui mercati dell’Europa centrale e orientale con un rendimento sui mezzi propri tra i più elevati nel panorama bancario italiano. Mettiamola così: come sempre, per metà la contingenza è figlia del caso, per metà della necessità. Il “caso” è quello della crisi dei mercati finanziari grazie alla goccia che ha fatto traboccare il vaso, i mutui americani meno solvibili che dall’inizio dello scorso agosto hanno preso a far ballare la rumba alle quotazioni, e costretto le banche centrali a immettere liquidità per centinaia e centinaia di miliardi di euro. I banchieri hanno tentato disperatamente di dire per settimane che il peggio era passato, che il segmento subprime riguardava poche decine di miliardi di dollari, al più un centinaio, e che le banche europee (tranne alcuni casi in Francia, Germania e Olanda, e nel Regno Unito dove l’immobiliare è “forzato” nei consumi delle famiglie come in America) avevano in realtà comprato debiti “affettati” di quel tipo sui mercati in quantità assolutamente trascurabili. In realtà, le banche hanno preso a non fidarsi l’una dell’altra non tanto e non solo per i debiti subprime rigirati l’una all’altra, ma per centinaia di miliardi di dollari di debiti “spalmati” sul mercato senza che nessuno avesse più davvero contezza del profilo di rischio derivante dalle varie fette accomunate nel panino, attraverso veicoli societari che stanno il più delle volte fuori dai bilanci patrimoniali delle banche e dai relativi coefficienti di stabilità e solvibilità di cui esse devono rispondere alle autorità regolatrici. Una ciliegia tira l’altra, ed ecco che a quel punto si è acceso il faro sui derivati che per anni avevano impazzato sui mercati senza destare troppo l’attenzione. Ed ecco l’incazzatura di Profumo, visto che Unicredit in realtà ha piazzato a diverse migliaia di piccole imprese prodotti in derivati soprattutto negli anni 2001-2005, avviando sin da allora una ricognizione che per moltissime imprese ha significato perdite sicuramente superiori al miliardo di euro, e per alcune centinaia l’apertura di un contenzioso con la banca. Quando Profumo dice che Unicredit non era la sola a farlo, dice la verità. Anche se nella crescita della redditività di Unicredit, le commissioni upfront su quel tipo di prodotti giocavano in quegli anni un ruolo di notevole importanza. Ed è comunque un bene per tutti che i fari dell’attenzione si accendano sui derivati, sia per le imprese private che per gli enti pubblici, che ne dovrebbero stare rigorosamente lontani.
Quanto poi alla “necessità”, ha un nome preciso. Si avvicinano nuove tensioni nel post fusione tra Unicredit e Capitalia, e riguardano non tanto la Mediobanca in cui è asceso Cesare Geronzi, quanto il gioiello primario che Mediobanca da sempre custodisce, cioè le Generali. Tra l’Intesa del professor Giovanni Bazoli, che a Generali è intrecciata e da essa è partecipata, e la Super-Unicredit di Profumo con il ruolo di Mediobanca come cassaforte di mezzo, è chiaro l’attrito. In più, la politica arranca, incerta. E il nervosismo dei banchieri sale. Il che spiega forse anche come mai, sui media, Profumo abbia meno “scudi” di prima.
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