Quel bancocentrismo duro a morire

«Ma quale nuovo Cuccia? Chi può sostenere che Unicredit sia presente nel capitale di importanti imprese italiane come un tempo faceva Mediobanca?». A chi punta il dito contro i superbanchieri italiani risponde così Alessandro Profumo, leader di una Unicredit con ultimo trimestre da record dopo la superfusione con la Capitalia di Cesare Geronzi. Le maggiori banche italiane nell’ultimo anno hanno dato vita a due grandi colossi, la super Intesa del professor Bazoli che ha annesso il Sanpaolo torinese, e appunto la super Unicredit che ha acquisito la dote di Geronzi portandolo in Mediobanca. Ma ha proprio torto, chi accusa le due superbanche di esercitare poteri spropositati? Chi scrive, è convinto che l’accusa sia fondata, essenzialmente per tre motivi.
La prima ragione ha a che vedere col mercato del credito nel nostro Paese. La Mediobanca di Cuccia vigilava e spesso salvava loro malgrado i grandi gruppi privati italiani tenendoli il più possibile lontani dalle grinfie delle molte banche allora pubbliche, governate da vertici scelti in maratone notturne tra i partiti di maggioranza. Grazie al cielo quelle banche partitiche non esistono più. Ma al contempo il legislatore non ha operato in modo che in Italia si radicassero operatori finanziari non bancari. Siamo più “bancocentrici” di prima : le banche – tornate “universali”, cioè libere di far di tutto, col Testo unico bancario del 1993 – danno alle imprese sia il capitale di rischio che quello di debito, controllano il risparmio sia al proprio sportello che quello amministrato tramite le Sgr (Società di gestione del risparmio) che al 90 e più per cento sono pure proiezioni di fabbrica finanziaria delle case-madri bancarie. Un esempio di questo strapotere? In queste settimane le Borse mondiali tremano per gli scricchiolii che provengono dai fondi immobiliari subprime del mercato Usa. Sono quelli destinati a chi ha basso reddito disponibile per pagare i ratei dei mutui. Oggi si rischia di pagare lo scotto di troppi derivati operati da fondi speculativi sugli andamenti di quei contratti a rischio; tuttavia il fatto che negli Usa vi siano fior di banche che rincorrono i meno abbienti è l’esatta fotografia di come dovrebbe funzionare un sistema del credito fondato sulla concorrenza. La seconda ragione ha a che vedere con le grandi imprese partecipate, e smentisce la tesi di Profumo. Sull’exit di Tronchetti da Telecom Italia, sono le banche ad aver deciso che le sue condizioni andavano bene, chiunque fossero i partner stranieri (la Telefonica di César Alierta) e sono sempre loro che si stanno accapigliando sul nuovo management. La terza ragione ha a che vedere con la politica. I politici dopo il 1992 hanno sbagliato a prendere le misure – sia gli statalisti, sia i pochi liberisti – con le fondazioni bancarie. Che sono state, con pochi grandi banchieri, le protagoniste vere del consolidamento nel settore. Poi, la politica è caduta da un anno a questa parte nell’illusione che la concorrenza alle banche si faccia a colpi di decreto legge abbassando i prezzi per imposizione. Un azionista pubblico serio, se volesse far innalzare la concorrenza delle banche e contenerne i poteri eccedentari nella vita pubblica italiana, dovrebbe scatenarsi sui servizi finanziari e sul collocamento di ogni prodotto e servizio della filiera del risparmio e della consulenza all’investimento Poste Italiane, invece di continuare a temere le reazioni dell’Abi. Tutti avremmo di che guadagnarci e il filo da torcere a Profumo e Passera verrebbe da più mercato vantaggioso per chi ha meno reddito, non da inutili interviste sui giornali rese da politici imbelli.

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