
Terra di nessuno
Quella Babele di radici e polvere
Le sette e cinque del mattino. Sul viale che costeggia il Cimitero Monumentale le auto dei primi pendolari viaggiano ancora rare e veloci verso il centro. È quell’ora precoce e incerta del giorno in cui il cielo e le strade di Milano si confondono in un unico grigio, mentre le finestre si illuminano sulle facciate delle case come sentinelle che montino di guardia. Porta Garibaldi: albeggia. Da est si allarga il chiarore nebbioso del giorno. Ce l’ho in faccia, attraverso il parabrezza ancora striato di brina. Il rock celtico amato da mio figlio fa da colonna sonora a questo germe di lunedì d’inverno: sembra una carica di barbaro esercito in una brumosa brughiera. Sta bene questa musica, tra i fari delle auto che incalzano e corrono in città, al lavoro. E contro al cielo pallido accanto al nuovo audace grattacielo della Regione si stagliano le torri del cantiere di Porta Nuova – ancora in fieri, ancora irte di gru che si alzano con le loro lunghe zampe da fenicotteri d’acciaio. (Spero sempre che il semaforo accanto alla stazione Garibaldi sia rosso, per fermarmi e restare un momento a contemplare questo castello turrito che già risuona del clangore degli acciai trasportati dai manovali).
Mi piacciono le luci delle gru, rosse, a segnalare a eventuali visitatori dal cielo (aerei distratti? Alieni? Angeli sopra Milano?) di volare al largo. Mi piacciono quelle gabbie di legno e ferro in cima alle torri, come medioevali macchine da guerra. E il ruotare lento delle gru in alto, mentre braccia di operai afferrano il cavo e appendono travi di metallo che poi salgono neghittosamente oscillanti nel cielo. Qualcuno là, all’undicesimo piano, le scarica e le cementa nelle mura. (Come deve essere freddo, in quest’alba a zero gradi, il ferro, e quanto incallite le mani degli uomini sulle torri. E queste colonne costruite stamattina, per quanti anni rimarranno lassù, imprigionando negli interstizi l’aria di nebbia di lunedì 8 febbraio 2010?)
Il rock celtico in auto ribatte la sua marcia di guerra, si sovrappone e confonde agli urti striduli delle travi, al rombo delle escavatrici nere con le pale artigliate – spaventevoli talpe meccaniche.
Quali lingue poi e quante, mi domando, si incrociano fra le torri e i piani scabri di cemento, e come si capiranno fra loro i manovali rumeni e egiziani e ucraini, e i ragazzi del Maghreb? In una babele di radici e di polvere, nel frastuono che assorda, va nascendo un’anima nuova di Milano. Sarà di cemento e vetro, sarà di acciaio, e di mani venute da lontano. Attorno, nel cielo che si fa più chiaro, le antiche case dell’Isola se ne stanno a guardare, come vecchi che seduti in una piazza di paese assistano benevoli alle corse dei ragazzi. E io, che sono sempre volta al passato, questa mattina guardo la città che ne partorisce una nuova, commossa. In queste stanze lavoreranno forse i miei figli, cresceranno i miei pronipoti. Niente finisce con me. Il rock celtico di mio figlio ora s’è fatto più dolce – come se anche i Dropkick Murphys, fieri eredi di Celti, avessero capito.
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