
Quelli che passano le giornate a controllare chi ha tolto il like a chi

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Cara Guia, sono la migliore in tutto quello che faccio. Se gioco, vinco. Se m’innamoro, mi riproduco. L’unica alla mia altezza è mia sorella, vai a capire se perché abbiamo avuto il vantaggio della stessa genetica o dello stesso ambiente.
Insomma, l’altro giorno mi sbaglio e, invece di mandare una foto in costume a lei, la pubblico su Snapchat. Il problema è che nella foto si vedevano cinque mesi di pancia. A quel punto mi è toccato annunciare ufficialmente che sono incinta: mica potevo lasciare che mi pensassero ingrassata!
E ora sono qui che rimugino: avevo intenzione di annunciarlo più avanti, è la prima volta che una cosa non va come ho deciso io. Ma soprattutto mi chiedo: possibile che una foto cancellata quasi subito da un social network minore la vedano tutti ma proprio tutti? La gente non si sconnette mai? Stanno sempre a ricaricare le pagine sperando arrivi il tweet dello zio d’America che li lascia eredi universali?
Serena W.
Cara Guia, sono la più media delle medie. Ho lavorato tanto per arrivare a questo risultato, per far sembrare ogni capo costoso un saldo di una catena da poco, perché tutte mi vedessero così: come una di loro. Non sai quanto è monetizzabile sembrare una qualunque.
Mi sono persino trovata un fidanzato perfetto per il mercato: burino arricchito ma tanto di cuore, insieme siamo perfetti, e infatti i like di entrambi si sono moltiplicati. Non appena troveremo qualcuno che ci scriva delle canzoni decenti, saremo i Beyoncé e Jay Z italiani.
L’unico ostacolo è il touchscreen. L’altro giorno per sbaglio ho sfiorato unfollow. È stato un attimo, ho subito seguito di nuovo il mio amore su quel social, ma se n’erano già accorti tutti. Ma la gente non si fa mai gli affari propri? Stanno sempre a controllare i follow e gli unfollow e a dedurne crisi e separazioni? Non hanno anche loro delle fatture da fare?
Chiara F.
Care ragazze, avete tutta la mia solidarietà. Molti anni fa, un direttore che voleva pagarmi meno mi convinse con ingannevoli moine a dare un esame per entrare in quel girone chiamato Ordine dei giornalisti. Dovete sapere che io sono stata bocciata a tutti gli esami: quello per l’Accademia d’arte drammatica e quello per la scuola di giornalismo, quello per la patente (quattro volte) e quello, avrete già capito che finiva così, per prendere il tesserino dell’Ordine.
Ecco, care Chiara e Serena, è una bocciatura di cui m’inorgoglisco spesso, ma mai quanto nei giorni scorsi, quando mi sono resa conto con un brivido che quel giorno di tanti anni fa rischiai di avere qualcosa in comune con gente che passa le giornate a controllare gli Snapchat e gli Instagram dei famosi, a vedere chi ha fatto unfollow a chi e quale foto che è stata online cinque secondi può valere cinque righe mal pagate.
In questi giorni si porta molto un articolo del New York Times sull’“ora-Shultz”: quella in cui il ministro degli Esteri di Reagan staccava il telefono e si chiudeva in una stanza a riflettere. Tutti quelli che linkano il pezzo su Facebook sospirano che sì, bisognerebbe farlo, siamo troppo connessi, teniamo il telefono sul comodino e ne siamo schiavi.
Ora: ieri un amico era sicuro fossi morta perché ho tardato un quarto d’ora a rispondergli, cosa che non accade mai (ero sotto la doccia). Ma persino io a volte dimentico il telefono in borsa, o lavo i piatti e non posso controllare tutte le app con le mani bagnate. Persino io capisco che un’ora alla settimana non è esattamente un obiettivo che possa trasformarmi da schiava in eremita.
Certo, è un’ora in meno in cui controllare chi ha messo like a chi, in cui condividere in bacheca pensosi pezzi sull’importanza della disconnessione, in cui scoprire se l’ex delle medie ha fatto follow alla compagna del liceo. Un’ora da passare a chiedersi, Serena, se per favore puoi smetterla di vincere tornei mondiali di tennis da incinta, facendo sentire delle fallite noialtre che da una vita millantiamo gatti morti e nonne malate per saltare l’ora di educazione fisica.
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