Quest’uomo al Massimo può andare all’estero

Di Alessandro Giuli
18 Maggio 2006
prima le banche, poi la camera, infine il quirinale. CHE D'ALEMA SIA UNA METAFORA DEL "VOGLIO MA NON POSSO"? LA PARABOLA DI UN'ETERNA PROMESSA DELLA POLITICA ITALIANA

Ormai Massimo D’Alema è talmente frastornato da smentire le proprie interviste. «Mai detto a Repubblica che sono pronto a fare il vicepremier insieme con Francesco Rutelli», ha detto l’uomo dei passi indietro prima di acconciarsi a fare il vicepremier insieme con Francesco Rutelli. Si dispiega così, contorcendosi all’indietro, il cammino dolente di questo gambero rosso del riformismo italiano giunto a un centimetro dalla presidenza della Camera, poi a pochi metri dal Quirinale, infine sbertucciato dalla serpe in seno. Che porta il nome dell’ineffabile Rutelli, il neodemocristiano (tendenza De Mita) che gli ha sbarrato la strada per il Colle e adesso gli infligge la propria silhouette come vice di Romano Prodi a Palazzo Chigi. Da non credere, ma è così. Il grande amministratore della Bicamerale (1998), l’ex comunista che ai bei tempi ulivisti definì Mediaset un patrimonio italiano, il marinaretto munito di senso dello Stato e di una vocazione spericolata al negoziato con il nemico assoluto (sempre il Cav.), oggi si ritrova un ministero lussuoso nel quale macerare il proprio scontento da esule in patria. Perché la Farnesina abbinata al vicepremierato in condominio con l’odiato Rutelli, per uno come lui, a questo punto vale come un foglio di via.
Non c’è altro modo per spiegare il fallimento del progetto dalemiano di dar forma compiuta a certe ambizioni personali salvando al contempo la ragionevolezza politica di un paese spaccato in due dal voto di aprile. E ancora una volta D’Alema s’è dimostrato più arguto che forte, un’anima di bronzo ma disincarnata, senza materia per realizzare il sogno di un accordo con il centrodestra per inaugurare una bella stagione di politica politicienne. La necessità primaria del dopo voto era quella di circondare Prodi dall’alto: con D’Alema al Quirinale a far da garante per sette anni – come da intervista di Piero Fassino al Foglio – di un sistema impermeabile al “cortocircuito tra politica e giustizia” e talmente bipolare da scegliere nuove elezioni nel caso in cui il tremebondo esecutivo non ce la facesse a reggere. E talmente maturo da immaginare soluzioni trasversali per rimettere mano alla Costituzione dopo il referendum sulle riforme poliste.
Su queste basi la dirigenza dei Ds ha costruito intorno a D’Alema un meccanismo chiaro e pugnace, ma non abbastanza. Bisognava ottenere tre risultati tutti in una volta. Primo: domare l’indomito Cav. smarrito nella rivendicazione della vittoria elettorale mutilata, rassicurarlo sulla sopraggiunta consapevolezza comune che la logica amico/nemico a volte deve trovare un punto d’equilibrio chiamato governabilità del sistema. Secondo: assorbire il contraccolpo esterno dell’iniziativa, incassando al meglio il destro-sinistro degli organi dell’establishment, dall’asse Corriere-Sole 24 Ore in giù (Repubblica si è per fortuna divisa in troppi rivoli). Insomma i giornali che piacciono alla gente che piace, come Giuliano Amato, perché vivono la competizione politica come prosecuzione del lobbismo con altri mezzi. I megafoni della custodia delle istituzioni concepite come musei nei quali collocare bigi tutori della Repubblica. Terzo: battere la protesi parlamentare del paesaggio di cui sopra, cioè l’ala tecnocratica della Margherita guidata dal finto cattolico Rutelli e collegata agli strateghi della terza età depositati nel centrodestra. Pier Ferdinando Casini e il suo scudiero Gianfranco Fini.

Sulla barca di ricucci & C.
A ben guardare i Ds stavano tenendo in caldo un piano donchisciottesco, perciò bello, che avrebbe dovuto saldarsi con l’anima pop di quell’altro inseguitore di mulini che è Berlusconi. Infatti è andata male. Come ha notato il presidente emerito Cossiga gridando al tradimento dei giovanotti antidalemiani. Il fatto è che a distanza di nemmeno un anno si è ripetuto, in casa diessina, lo schema rancido cui avevamo assistito durante le scalate estive del 2005. Quando, in mezzo alla baruffa dei furbetti romano-bresciani rivolti ad Antonveneta, la dalemiana Unipol marciava su Bnl, la banca romana protetta dal patto di sindacato meneghino che controlla il Corriere. Erano i giorni in cui Fassino diceva «abbiamo una banca» a Giovanni Consorte, mentre i banchieri veri e smaliziati si preparavano a vendemmiare con la forza delle procure e dei giornali sulla pellaccia degli scalatori. Risultato: i dirigenti della Quercia hanno trascorso mezza stagione a vagheggiare un bel ruolo nell’alta finanza, e la seconda metà a farsi perdonare il sogno, circondati da lazzi e urli dei cantori della cosiddetta questione morale.
Cos’è cambiato, nel frattempo? Poco o niente. Gli stessi poteri, esangui ma influenti, hanno inflitto a D’Alema lo status di “inadeguato a presiedere”. E non hanno avuto bisogno di telefonare all’Economist per farci su una copertina con scritto “Unfit to lead”. È bastato manovrare in Parlamento e arruolare la crema degli editorialisti sinceramente apolidi. E, tanto per essere chiaro, a vittoria consumata, il Corriere s’è perfino ricordato d’avere nel cassetto un verbale in cui Gianpiero Fiorani fissava un appuntamento (fallito) con D’Alema. Lo ha pubblicato sabato, mentre il ragazzaccio rosso cercava ancora di far fuori Rutelli da palazzo Chigi. Poverino, D’Alema, costretto a fare la figura dell’Inter: sempre a un passo dal grande trofeo, poi qualcuno passa avanti e gli fa marameo. E adesso è di nuovo lì, in bocca il miele e in corpo il fiele, senza la forza per gridare alla truffa, esule in un paese che dice di governare ma non presiederà mai. Condannato a diluire la Quercia in un partito democratico che – come insegna il debenedettian-veltroniano Michele Salvati – si farà, purché i vari D’Alema non siano della partita. Risate di Rutelli in sottofondo.

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