Referendum Mirafiori, Facci: «Se la Cgil ricorre alla magistratura fa un doppio autogol»

Di Chiara Rizzo
18 Gennaio 2011
Filippo Facci, giornalista di Libero, commenta la possibilità che la Cgil ricorra ai pm per annullare il referendum: «Toglierebbe credito al sindacato che non accetta la decisione dei lavoratori e screditerebbe anche la magistratura. Ma allo stesso tempo ne confermerebbe lo strapotere: proverebbe cioè che le toghe hanno l'ultima parola su tutto, compresa la democrazia». Battista (Corriere): «Chi vota sì vale meno di chi vota no per certi giornali perché il riformismo nella nostra cultura viene guardato con sospetto»

«Ogni qual volta le cose non vanno secondo i propri desiderata si ricorre alla magistratrura. Fin dalla Prima Repubblica c’è un solo potere in grado arbitrariamente di convertire a proprio piacimento ogni decisione secondo idee proprie, ed è la magistratura. In questo caso però il ricorso della Cgil sarebbe un doppio autogol, primo perché toglierebbe credito al sindacato che non accetta la decisione dei lavoratori, secondo perché toglierebbe credito anche alla magistratura. Ma allo stesso tempo ne confermerebbe lo strapotere: proverebbe cioè che le toghe hanno l’ultima parola su tutto, compresa la democrazia».

Commenta così il giornalista di Libero Filippo Facci la possibilità che la Cgil ricorra alla magistratura per fare annullare il referendum che a Mirafiori, con il 54% di sì, ha sancito l’approvazione da parte dei lavoratori Fiat dell’accordo preso tra l’azienda torinese e i sindacati, tranne la Fiom. «Non esiste nessuna logica di uscita se non conflittuale da questa situazione di strapotere – continua il giornalista -. L’unica via è cambiare la costituzione e non si potrà farlo senza scatenare l’inferno. Nessuno secondo me ne ha la forza né la volontà di cambiare le cose, nemmeno Berlusconi stesso visto che nella sua ultima uscita televisiva, domenica 16, ha parlato dell’urgenza di fare la riforma della giustizia: non si capisce perché allora non vi abbia messo mano subito, già da quando il governo si è insediato».

Anche il ministro Maurizio Sacconi si è espresso sul risultato del referendum.
Secondo il titolare del Welfare, i “no” all’accordo Fiat (il 46%) sono l’espressione di una preoccupazione su come conciliare i nuovi tempi di lavoro con quelli del “non” lavoro e non un’adesione all’ideologia della Fiom.

«Quei “no” non sono un’adesione alle politiche sindacali,
e non solo sindacali, della Fiom, non sono un’adesione all’ideologia del conflitto tra capitale e lavoro che in qualche modo ancora informa quell’organizzazione, sono l’espressione di quella preoccupazione diffusa tra i lavoratori di non riuscire a conciliare i tempi di lavoro con i loro tempi di non lavoro. In passato –  ha ricordato il ministro – molti accordi anche nella stessa Mirafiori firmati anche dalla Fiom sono stati bocciati dai lavoratori in base a questi timori sulla loro condizione di vita. La Fiom, quindi, non si intesti tutto questo risultato: ha sposato tutto il malessere e non si è assunta la responsabilità che altre organizzazioni si sono assunte per favorire l’investimento».

Anche Giuseppe Terracciano (Cisl) ritiene che con il referendum di Pomigliano prima e Mirafiori poi si debba chiudere una fase di contrapposizione e di scontro anche aspro, e riprendere un dialogo tra tutti i protagonisti del futuro industriale del nostro paese.

«Il gruppo dirigente deve riassumere il ruolo che i lavoratori con la propria adesione gli hanno affidato, ritornare a svolgere una funzione di tutela del lavoro attraverso accordi come ha dimostrato la storia, ed evitare che si ripetano esasperazioni nell’assunzione delle decisioni, come quest’ultima, che ha addirittura responsabilizzato poche migliaia di lavoratori, che si sono dovute sobbarcare l’onere di decidere anche per conto di altre decine e forse centinaia di migliaia di lavoratori, a partire dall’indotto, che avrebbe comunque seguito la stessa sorte».

«Responsabilmente gli attori del “sì” hanno capito
che non vi era alternativa e si sono assunti la responsabilità di far ripartire l’Italia del lavoro. Tocca ora a tutti noi, riportare la discussione, sempre nell’alveo della democrazia, a livelli di ragionevolezza, nell’interesse dell’intero paese».

Secondo il giornalista del Corriere Pierluigi Battista, quelli come D’Alema, Bersani o Nichi Vendola che esaltano gli operai che hanno votato no, e tacciono (o peggio insultano) gli stessi operai se hanno votato sì, si fingono riformisti ma in verità odiano la categoria: «Il riformismo nella nostra cultura è sospettato di una vulnerabilità al tradimento, c’è sempre verso di esso l’idea di piegarsi ad un’etica del compromesso, mentre anche senza condividerle si pensa che le posizioni più radicali siano le più generose. L’idea giustificazionista che sottende questo atteggiamento oggi visibile nel caso della Cgil è che il radicalismo sia più nobile nei paesi dove c’è il grande riformismo democratico, laburista, cristiano sociale».

Per Battista, nessuno oggi rappresenta questi riformisti: «Né a destra né a sinistra. Politicamente né il pdl, né il pd né i terzi poli li rappresentano: sono pochissimi e sono abbandonati a sé stessi. Basta chiedersi quanto conta nel Pd un Pietro Ichino o uno come Sergio Chiamparino. E questo atteggiamento è la migliore assicurazione per Berlusconi, perché non essendoci una forza riformista alternativa, non c’è nemmeno un’alternativa a lui, e un Paese dove non c’è un dialogo è una democrazia monca: ecco perché rimaniamo arroccati sempre allo stesso punto.

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