
Regno Unito, nuove linee guida: l’eutanasia soft degli inglesi
Il Corriere della Sera di giovedì 2 giugno apriva con il titolo “In Gran Bretagna l’eutanasia gestita dai medici di base”. Oltre a essere forte, il titolo è anche fuorviante perché in Inghilterra, dove si sta discutendo una legge sul testamento biologico, una legge statale sul fine vita ancora non c’è.
L’articolo si riferisce, infatti, a delle linee guida varate dall’ordine che raccoglie i medici di base inglesi, il Royal College dei General Practitioner, in cui si chiede ai pazienti di scrivere precisamente come vogliono essere trattati in caso di malattia grave. Il documento è ambiguo e non presenta vincoli di alcun tipo. Nonostante questo, scrivono i giornali inglesi, dovrebbe servire a frenare l’eutanasia passiva già effettuata dai medici senza consenso né dei pazienti né dei parenti.
Di fatto in Gran Bretagna nel 2004 furono consigliate dal servizio sanitario nazionale altre linee guida, contenute nel Liverpool Care Pathway (Lcp). Il protocollo è definito come «un percorso di cura integrata utilizzato al capezzale per incrementare un’elevata qualità del morente» e permette la sospensione di alimentazione e idratazione, sostituibili nelle ultime ore con la morfina. Questa prassi, normale e non eutanasica quando il paziente è ormai nelle ultime ore di vita, veniva però usata a sproposito e in maniera letale, come dimostrato dalle denunce di pazienti e parenti. «In alcuni casi infatti – riporta il Daily Telgraph di mercoledì 1 giugno – lo staff ospedaliero è stato accusato di accelerare la morte dei pazienti senza informare i parenti. Perciò, il Liverpool Care Pathway (…) è stato spesso criticato da esperti preoccupati che venga permesso di morire a pazienti che potrebbero anche riprendersi».
E’ quindi per ovviare alla prassi mortifera introdotta dall’Lcp, spiega sempre il quotidiano inglese, che ieri sarebbero uscite le nuove linee guida del Royal College. In realtà, il documento sembra più che altro uno strumento voluto dai medici per difendersi da eventuali denunce. Si richiede, infatti, al paziente di scrivere esattamente come desidera essere trattato in caso di malattia grave, ma siccome nel protocollo non vengono specificati vincoli di alcun tipo, il problema dell’eutanasia rimane. In compenso, i dottori sono deresponsabilizzati. «Uno strumento legale che vuole arginare l’eutanasia ma che di fatto permette che un paziente scriva come i medici si debbano comportare nel caso di incapacità di esprimersi, è comunque rischioso» ha dichiarato l’avvocato Charles Foster, membro del comitato bioetico di Oxford.
Foster ha poi avvertito che si dovrebbe sapere che «spesso i pazienti si attaccano alla vita proprio quando si fa più dura e che la volontà dovrebbe sempre essere attuale». Per lo stesso motivo la Chiesa cattolica inglese, già durante il dibattito legislativo sul fine vita, aveva precisato che qualsiasi norma o regolamento in questo campo è destinata solamente a fare danni: «Condividiamo – avevano scritto 750 sacerdoti – la grande preoccupazione di quei cattolici esperti in medicina legale che hanno ammonito che le disposizioni normative quali quella che dà forza legale ai “testamenti viventi”, costringerà i medici a smettere l’assistenza a vita (come l’alimentazione o l’idratazione) o il trattamento medico». Non solo, la Chiesa cattolica aveva già avvertito che i testamenti spingono le persone a pensare «di essere un peso per gli altri e a credere che ci siano casi in cui la vita non è degna di essere vissuta, così il diritto a morire potrebbe anche trasformarsi in un dovere a morire».
Così, anche questo secondo protocollo del Royal College non tranquillizza chi si oppone all’eutanasia ma neanche la permette esplicitamente, come il titolo del Corriere della Sera suggeriva in modo erroneo.
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