
Reithera. L’autarchia vaccinale non convince tutti

Rischia di naufragare sul più bello il progetto del vaccino italiano. Pochi giorni fa la Corte dei conti ha pubblicato la delibera che illustra le motivazioni dello stop ai finanziamenti destinati a Reithera, la società di Castel Romano impegnata nella realizzazione del siero anti Covid-19. Uno stop che di fatto comporta il rinvio della “fase 3”, ovvero l’ultimo passaggio della sperimentazione clinica, a data da destinarsi.
Il qui pro quo burocratico
Lo scorso 26 gennaio Invitalia, l’agenzia nazionale per lo sviluppo di proprietà del Ministero dell’economia e delle finanze, aveva approvato il contratto di sviluppo presentato da Reithera per complessivi 81 milioni di euro. Gran parte dell’investimento (69,3 milioni), recitava il comunicato diffuso in quei giorni dall’ente di cui l’ex commissario straordinario per l’emergenza Domenico Arcuri è tuttora amministratore delegato, era destinato «alle attività di ricerca e sviluppo per la produzione» del siero contro il coronavirus. La restante parte, pari a 11,7 milioni di euro, avrebbe dovuto essere utilizzata per ampliare lo stabilimento di Castel Romano, sede della produzione del farmaco. «Speriamo di poter somministrare al più presto il primo vaccino italiano anti-Covid», dichiarava Arcuri nell’occasione. Sull’onda dell’entusiasmo, lo Stato italiano per mezzo di Invitalia acquisiva inoltre il 27% del capitale della società.
E invece per vedere somministrate le prime dosi confezionate da Reithera occorrerà attendere probabilmente ancora per molto. Scorrendo il testo della delibera della Corte dei conti, ci si imbatte in un vero e proprio qui pro quo burocratico. Nell’accordo di sviluppo viene proposto l’investimento per «l’ampliamento dello stabilimento produttivo» di Castel Romano, da perfezionarsi tramite «l’acquisizione delle proprietà della sede e nella realizzazione di un impianto di infialamento e confezionamento delle dosi di vaccino». Capitoli di spesa che, stando ai magistrati, non rientrano in «alcune delle tipologie di progetto ammissibile». Un intoppo che «non consente al solo investimento rappresentato dalla realizzazione dell’impianto di infialamento e confezionamento, per un importo di euro 7.734.126,68, di raggiungere la soglia minima di 10 milioni di euro» prevista dalla normativa vigente.
No finanziamenti, no party
No finanziamenti, no party. Senza i soldi promessi da Invitalia, l’obiettivo produttivo di 10 milioni di dosi al mese è meno che un miraggio. La dirigenza di Reithera ha spiegato che i mancati introiti non influenzeranno lo svolgimento della “fase 2”, ma per passare allo step successivo sarà necessario reperire fonti di finanziamento alternative. C’è chi, come gli stessi vertici dell’azienda, parla di semplice «vizio di forma del contratto di sviluppo» che «non riguarda la bontà del progetto o del vaccino, ma aspetti tecnico-giuridici legati al contratto di finanziamento». E chi, come il direttore scientifico dello Spallanzani di Roma, Giuseppe Ippolito, nega qualsivoglia «passo indietro».
A seguito della pronuncia della Corte dei conti non sono mancate voci a supporto di Reithera anche all’interno dell’esecutivo guidato da Mario Draghi. Secondo il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti, «il governo continuerà ad andare avanti nella ricerca», anche se «magari in forme diverse rispetto alla forma usata in passato». Determinato a trovare una soluzione il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri: «Avere una possibilità di un vaccino fatto in casa è un’opportunità per tutta l’Italia».
Figliuolo scettico su Reithera
Non mancano tuttavia i detrattori del progetto. Tiepido il commissario Francesco Paolo Figliuolo, il quale prima fa notare come Reithera «sta aspettando ancora lo scientific advisor di Ema (l’Agenzia europea del farmaco, ndr) per andare in terza fase», e poi invita alla prudenza ricordando che «ai fini della campagna vaccinale abbiamo quattro vaccini disponibili, a fine giugno avremo anche Curevac, che è un vaccino a Rna e ci mette abbastanza al sicuro». Per il generale Figliuolo, piuttosto, il progetto dell’azienda laziale andrebbe considerato semmai a «medio-lungo termine».
Ma il vaccino tricolore stenta a raccogliere consensi anche tra i sedicenti esperti nostrani. Contro il progetto Reithera si sono schierati infatti, tra gli altri, il direttore del Dipartimento di malattie infettive dell’ospedale Sacco di Milano Massimo Galli, l’immunologa dell’Università di Padova Antonella Viola e il virologo Roberto Burioni. Tutti scettici sull’obiettivo di perseguire l’autarchia vaccinale per il tramite di finanziamenti statali, specie dal momento che altri sieri sono già disponibili per il grande pubblico.
All’estero l’autarchia ha funzionato
Un modello che sembra aver dato i propri frutti altrove. Lo scorso settembre, ad esempio, Biontech riceveva un contributo di 375 milioni di euro da parte del governo di Angela Merkel, ovviamente allo scopo di sviluppare il vaccino. Ora l’azienda tedesca, oltre a distribuire insieme a Pfizer il vaccino considerato più efficace sul mercato, va a gonfie vele, avendo chiuso il primo trimestre del 2021 con ricavi per 2 miliardi di euro e utile netto pari a 1,2 miliardi. Stesso discorso per l’operazione “Warp Speed” promossa l’anno scorso dalla Casa Bianca, e della quale hanno beneficiato Johnson&Johnson (800 milioni di euro), Astrazeneca (1 miliardo), Moderna (1,25 miliardi), Novavax (1,3 miliardi) e Sanofi-Gsk (1,7 miliardi). Sembra proprio che il vaccino italiano, invece, non s’abbia da fare.
Foto Ansa
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!