Lasciate che i numeri parlino di me

L’eccezionale normalità e la vertiginosa grandezza del fatto cristiano ricostruite con i dati geografici, demografici e sociali di “quel tempo”

Oggi, mercoledì 7 giugno, alle ore 17.30 Roberto Volpi presenterà il suo libro, “In quel tempo”, presso il Pio Sodalizio dei Piceni, in piazza San Salvatore in Lauro 15 a Roma. Dialogheranno con l’autore monsignor Vincenzo Paglia, Lucetta Scaraffia e Andrea Tornielli. Modera Matteo Matzuzzi. L’ingresso è libero. Di seguito la nostra recensione al suo libro apparsa su Tempi di maggio.

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L’esperienza cristiana è agli antipodi della legge dei grandi numeri, tutto cominciò con un gruppo di dodici amici. Eppure spesso trattiamo questa piccolezza originaria come mera impressione emotiva. Quella di Gesù fu l’impresa folle di un gruppo sparuto o fu un’avventura calibrata per arrivare a incontrare davvero il popolo?
L’indagine di Roberto Volpi ha il merito di accompagnare il lettore a immedesimarsi nei dati evangelici, ripercorrendo la nascita del cristianesimo dalla predicazione di Gesù in Galilea fino ai viaggi di san Paolo con un’attenzione mirata all’aspetto geografico, demografico e sociale della storia di Cristo. Nel suo In quel tempo. Da Gesù a Paolo attraverso i numeri del Nuovo Testamento (Solferino) è la voce di uno statistico a parlare, ma la prospettiva spiccatamente incentrata su numeri, giorni, percorsi di cammino, analisi della popolazione è un guadagno di riflessione anche per il lettore che non trascura il passo divino all’opera in un luogo preciso, in un tempo preciso. Quante volte abbiamo sentito ripetere che Gesù predicava alle folle? Sapremmo dare un volto e un ordine di grandezza a quest’assembramento?

«In Palestina almeno un abitante su tre aveva meno di 14 anni, era un turbinio di bambini e ragazzi nelle piccole comunità», ci informa Volpi. Questa è una prima vigorosa doccia fredda che frantuma la tentazione di applicare al contesto storico di Gesù un’immagine legata al nostro tempo di gelo demografico ed età media di 48 anni. Lontano dagli stereotipi del giovinetto in mezzo a una folla di adulti, Gesù era un adulto che anche per questo predicava con autorità e aveva attorno un nutrito vocio di piccoli. Quando disse «lasciate che i bambini vengano a me» non stava chiamando due o tre pargoletti a cui fare un sorriso e una carezza. Non si riferiva a una minoranza irrilevante, ma a una presenza quantitativamente enorme e senza voce. Quell’invito, dunque, era già il preludio di un abbraccio a tutte le moltitudini silenziose e custodi, a dispetto delle gabbie del potere, del seme fecondo della vita.

Potremmo anche chiederci: è forse un’esagerazione faziosa degli evangelisti definire “folla” la platea umana che si raduna ad ascoltare le parabole del Nazareno? Dall’episodio della moltiplicazione dei pani e dei pesci si ricava il numero di cinquemila presenti e Volpi contestualizza il dato alla luce della popolazione insediata nel territorio attorno al lago di Tiberiade, centro da cui s’irradia la predicazione: «La conclusione è che un abitante su 6 o 7 fece in modo di farsi trovare o accorrere all’appuntamento con Gesù». Una percentuale importante in una scena geograficamente periferica, segno di un’attrattiva potente, scaturita in un ambiente «grigio».

Seguendo una strategia opposta agli algoritmi cattura followers, ci si trova di fronte a una Parola a portata di incontro personale (qualcuno a cui puoi tirare il mantello o a cui puoi offrire acqua al pozzo) e che si radica e ridesta i cuori in un sobborgo anonimo. È una mossa strana, perché noi siamo disposti ad aspettarci grandi cose solo agli estremi: eventi e notizie clamorose devono accadere o in mezzo agli effetti speciali delle grandi piazze oppure spingendosi nei recessi ignoti del mondo. Scegliendo il grigiore della Galilea il Figlio di Dio decide di stare nel posto comune. Lì dove sembra che nulla possa accadere, nel sottofondo delle nostre vite trite e ritrite, lì c’è Dio che cammina al tuo fianco e ti parla.

Uno strano protagonista

I dati sono molto asciutti, ma sanno essere eloquenti. C’è un altro squarcio emblematico di realtà che emerge nel quadro umano dipinto da Volpi. Gesù muore a Gerusalemme e lascia «un seme incerto». Conosciamo a menadito il racconto evangelico al punto di trascurare questa vertigine. Per rimanere nella metafora: Gesù non è il contadino che lascia il campo rincuorato dallo splendore delle messi, è il contadino portato via dopo aver gettato una manciata di semi. Secondo la logica prettamente umana sarebbe frustrante, amaro. Dal punto di vista di Dio è una scommessa sulla compagnia che verrà.

«120 persone nella sola Gerusalemme che si ritrovano per il primo incontro dopo la risurrezione di Gesù non sono propriamente un numero trascurabile», nota Volpi, considerando che l’istantanea della Passione ci mostra un Gesù rifiutato da tutti, dall’intera popolazione di una grande città e persino tradito dagli amici. Però è da quel momento che negli Atti degli Apostoli non si parla più di folla, ma di moltitudine. L’ordine di grandezza cresce.

Siamo abituati a pensare che in ogni storia eroica che si rispetti tocchi al protagonista la percentuale di maggior contributo all’impresa da compiere. E alle comparse qualche mossa di contorno. Il protagonismo di Gesù nei Vangeli è legato a una percentuale molto bassa di impatto, è il contributo di chi si limita al baluginio di un innesco. Solo da Risorto, cioè da compagno di viaggio presente eppure nascosto, entra e cambia il tessuto del mondo con proporzioni esponenziali, rendendo protagonista chiunque si lasci incendiare da quell’innesco.

Una versione di questo articolo è pubblicata nel numero di maggio 2023 di Tempi. Il contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

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