
Romney supera Obama di 4 punti. Ecco perché negli Usa i sondaggi si autoavverano
Mitt Romney è in vantaggio di 4 punti percentuali su Barack Obama. Il sondaggio del Pew Research Center, da tutti considerato imparziale, rivela che se si votasse oggi per le presidenziali americane il 49% degli elettori sceglierebbe il repubblicano, mentre solo il 45% darebbe il proprio sostegno a Obama. La svolta non è da poco, visto che un sondaggio positivo, come spiega l’articolo di Ferraresi uscito sul numero 40/2012 di Tempi, che riproponiamo, può cambiare e di molto la corsa per la Casa Bianca.
Mitt Romney si è dato una nuova regola: basta prendersela con i giornali che lo attaccano. Basta, cioè, puntare il dito contro la tendenza a sinistra dei media, modellare il messaggio elettorale su un vittimismo da nessuno-mi-vuole-bene, andare in televisione a dire che Barack Obama gode di un pregiudizio positivo da parte dell’establishment mediatico, quello che fa il clima in questa fase frammentata e convulsa di sondaggi, gaffe, crisi internazionali e scandaletti à la carte. Se fino a qualche settimana fa il candidato repubblicano scaricava sui vizietti liberal dei media americani tutti i fulmini che aveva a disposizione, ora la strategia è cambiata e impone di non insistere sull’uso sistematico della contraerea per contrastare la pioggia di fuoco che arriva dai media mainstream qualunque cosa Romney dica o faccia. È finita la fase in cui i quadri della campagna elettorale repubblicana dicevano «amiamo i cronisti che scrivono che la convention democratica è stata molto meglio della nostra, e per forza lo dicono: è come se un amante della bistecca scrivesse che ama le steakhouse. I democratici hanno semplicemente servito quello che il 90 per cento dei giornalisti vuole sentire. E a loro è piaciuto? Scioccante, direi». Al posto dello stillicidio di accuse è subentrata quella che Ed Gillespie, lo stratega che sta cercando di dare un nuovo volto alla campagna, chiama la “no whining rule”, la regola di non lamentarsi mai della copertura sfavorevole. Perché a forza di lamentarsi si rischia l’effetto boomerang: parlare troppo di quanto gli altri ti odiano e poco dei motivi per cui gli elettori dovrebbero votarti è una trappola in cui i conservatori sono tentati di cadere. Soprattutto quando si trovano di fronte uno come Barack Obama, beniamino naturale del giornalismo mainstream che quattro anni fa è salito alla Casa Bianca avvolto da un’aura d’invincibilità messia- nica resa ancora più scintillante dal gioco di riflessi creato dai media.
Il grande show elettorale
«Abbiamo un sistema in cui la stampa è libera», ha detto Romney la settimana scorsa. «Ci sono alcuni che sono dalla mia parte, e ce ne sono molti che stanno dalla parte di Obama, e la cosa non mi preoccupa. Non c’è dubbio che chiunque si trovasse nella mia posizione preferirebbe che gli articoli fossero riscritti con una prospettiva più favorevole, ma non mi interessa». La regola “niente lamentele” è un dispositivo di natura politica attivato da Romney nel momento in cui i sondaggi negli stati in bilico danno Obama in sostanziale vantaggio alle elezioni del 6 novembre, e lo sfidante sembra avere perso il “momentum”, l’inerzia favorevole, complici anche le uscite goffe con cui è riuscito a trasformare potenziali vantaggi in effettive sconfitte. O almeno così sono state percepite; e qui, nella percezione, sta tutto il problema di Romney e del suo rapporto con i media, qui si apre il divario fra la realtà e il modo in cui la realtà viene elaborata, raccontata e metabolizzata dall’opinione pubblica. Le elezioni americane sono più di una semplice competizione fra programmi elettorali e visioni della società contrapposte, sono racconti paralleli che si dipanano, storie in cui i dettagli personali dei candidati si danno mischiati alle proposte concrete, sono liturgie scandite da fasi precise, dalle convention ai dibattiti televisivi fino alla quotidiana guerra degli spot via cavo, e ciascuna viene messa in scena come una rappresentazione teatrale. La politica americana è un grande spettacolo, non soltanto nel senso avvilente dello show da consumare in poltrona, ma anche in quello nobile della rappresentazione popolare, approntata con sontuoso dispendio di energie e denari per aumentare le proprie capacità di penetrazione. Si capisce bene, dunque, che la percezione da parte dell’uditorio – un uditorio tutt’altro che passivo, anzi è un attore sulla scena e contemporaneamente il giudice che alla fine emetterà il verdetto – è un aspetto fondamentale nella gran macchina della politica americana.
Il peso dei sondaggi
I sondaggi sono la prima came ra iperbarica che cambia l’atmosfera attorno ai candidati e oltre a fornire un riflesso più o meno fedele dell’opinione tendono a influenzare gli sviluppi successivi e a produrre profezie che si autoavverano. Numeri positivi infondono fiducia nella base e la fiducia, come nei mercati finanziari, porta investimenti elettorali, i quali vengono impiegati per produrre nuovi messaggi per influenzare la percezione, che la fotosintesi elettorale trasforma nuovamente in fiducia. Lo stesso circolo, ma in senso vizioso, prende chi è bersagliato da numeri negativi. A parte la strutturale inaffidabilità dei poll elettorali, si tratta di capire quale peso hanno i fatti e quale la percezione dei fatti stessi. Prendiamo un sondaggio dell’istituto Gallup piuttosto significativo che è stato menzionato soltanto di sfuggita dai media nazionali. Il primo spiega che nel mese di settembre la fiducia degli americani nella ripresa economica è aumentata, in modo significativo. Se ad agosto l’indice di fiducia era a -29 (la differenza tra gli intervistati che si dichiarano fiduciosi nella ripresa e quelli che non nutrono speranze di miglioramento nel breve termine), il mese scorso è schizzato a -19, e Gallup spiega che sono in larga parte i democratici ad abbracciare improvvisamente una visione più rosea dell’economia. È successo in questo lasso di tempo qualcosa a livello economico che giustifica questo ritrovato ottimismo? Tutto il contrario. La crescita nell’ultimo trimestre è stata rivista al ribasso: dall’1,7 per cento stimato all’1,3, diminuzione in larga parte dovuta alla stagione di straordinaria siccità che ha distrutto raccolti e allevamenti americani; la disoccupazione è all’8,1 per cento, ma il dato più significativo è che sempre più americani smettono di cercare lavoro perché hanno perso fiducia nella possibilità di trovare un impiego. Cercano di riciclarsi in altri modi, tornando a studiare oppure dedicandosi a lavori saltuari, ma non vengono conteggiati nella forza lavoro. Gli economisti sono concordi nell’affermare che una effettiva ripresa economica si accompagnerà a una temporanea crescita del tasso di disoccupazione, segno che gli americani sono tornati alla ricerca attiva di un impiego. La situazione politica, poi, non giustifica la fiducia che i sondaggi riportano: i partiti al Congresso devono trovare un accordo sul budget in scadenza a fine anno, pena l’ingresso automatico di un piano lacrime e sangue che porterà l’America di nuovo in recessione. Il piano di austerità è stato costruito in modo tanto negativo proprio per convincere le parti a trovare un accordo più equilibrato prima di precipitare il paese nel “burrone fiscale”. Ma non c’è mai stato un momento in cui i partiti sono stati tanto lontani da una piattaforma comune. Il problema dunque è a livello della percezione, e in questo caso una rappresentazione positiva aiuta naturalmente il presidente in carica. E così tutto il mondo obamiano coopera alla costruzione di un clima di fiducia.
L’imparzialità che non c’è più
I giornalisti sono la strettoia o il filtro attraverso cui l’enorme mole di materiale prodotta dalla campagna elettorale deve passare. Romney ha deciso di non stracciarsi le vesti pubblicamente per le maldicenze o gli insulti dei giornali avversari – nella convinzione che strepitare non faccia che peggiorare la percezione che gli americani hanno di lui – ma il dibattito sul “liberal bias”, la tendenza a sinistra dei media, è precipitato all’interno degli stessi giornali che tradizionalmente sono accusati di fomentarla. È il caso del New York Times, dove il public editor, cioè il garante dell’equilibrio del giornale nei confronti dei lettori, prima di dare le dimissioni ha scritto che «molte sezioni all’interno del giornale condividono una forma di progressismo politico e culturale che in qualche modo stilla dallo stesso tessuto del quotidiano. Il risultato è che fenomeni come Occupy Wall Street o il dibattito sul matrimonio gay vengono affrontati più come battaglie culturali che come oggetto di racconto giornalistico».
L’effettiva esistenza del “liberal bias” è oggetto di una disputa infinita e autori come Tim Groselose si sono dedicati a raccontare la pervasività del pregiudizio liberal – con particolare riferimento al fenomeno Obama – mentre Eric Alterman è diventato il rappresentante degli scettici con il suo What Liberal Media?, confutazione ragionata delle tesi conservatrici uscita nel 2003. Il public editor del Washington Post, però, non concorda con quest’ultima confutazione, almeno per quanto riguarda il giornale per cui lavora. Per spiegarlo cita uno studio del Pew Research Center for the People & the Press, centro di ricerca demografica citato come fonte bipartisan da qualunque organo di informazione: il 60 per cento dei repubblicani, spiega il sondaggio, pensa che la copertura elettorale sia troppo favorevole a Obama, nel 2008 la percentuale era al 55 per cento; sempre nel 2008 il 60 per cento degli americani pensava che il modo in cui la campagna elettorale veniva raccontata fosse sostanzialmente “fair”, corretto, mentre ora questa percentuale è scesa al 48. Entrando nel dettaglio del sondaggio si scopre che la percezione – di nuovo – degli americani è sì cambiata rispetto a quattro anni fa, ma soltanto nel senso che Obama, secondo i lettori anche democratici, viene trattato anche meglio di quanto sia stato trattato durante l’irresistibile cavalcata contro John McCain e la tanto odiata eredità di George W. Bush. Patrick Pexton spiega che, a parte alcuni casi sporadici, i cronisti del Washington Post pensano, confezionano e propongono le notizie da un’angolazione chiaramente progressista, e che dunque ciò che dovrebbe essere presentato con equilibrio e imparzialità arriva al lettore distorto da una lente liberal.
Basta prendere il reportage, diventato ormai un caso di scuola, in cui Jason Horowitz ha raccontato agli americani con dovizia di particolari un episodio di bullismo – senza la minima conseguenza – di cui Romney si è reso protagonista quando era uno scolaretto, nel 1965. Per giorni i media si sono chiesti se il candidato repubblicano fosse ancora moralmente legittimato a presentarsi nella corsa per la Casa Bianca o dovesse piuttosto ritirarsi avvolto nel mantello del disdoro. Dorothy Rabitowitz, membro del board editoriale del Wall Street Journal, quotidiano che da posizioni conservatrici non ha mai risparmiato critiche a Romney, ha messo a confronto la copertura mediatica data ai due candidati, e non è difficile evincere che quella che per uno è una bagattella per l’altro è uno scandalo al sole, ciò che per il presidente è un “bump in the road”, un piccolo incidente di percorso, per lo sfidante è una montagna insormontabile sulla strada che porta alla Casa Bianca.
Gaffe imperdonabili e omissioni
Romney ha commesso errori innegabili durante la campagna elettorale, e la registrazione di una privatissima cena di fundraising in cui parla in termini assai poco lusinghieri del 47 per cento degli americani che gioca a fare “la vittima” e vivacchia placidamente su un sistema di welfare pagato dai veri lavoratori è il sintomo più evidente dell’imprudenza. Ma quello che succede dall’altra parte della barricata sembra incredibilmente più facile da perdonare, o ancora meglio da omettere, con l’intento più o meno dichiarato di guidare verso lidi sicuri quella forza che così tanto conta nello spettacolo delle elezioni americane, la percezione.
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1 commento
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Questa è roba scaduta, è meglio che la togliate dallo scaffale.