
Rossi di sangue nero
«Insisto perché mi piace la storia completa, senza pagine bianche», e insiste perché le pagine bianche della primavera del ’45 sono imbrattate di sangue nero, quello di “ventimila scomparsi, torturati, uccisi”, la cui memoria è un pezzo di metallo. «La faccia di mio padre non c’era più: l’avevano devastata i proiettili… Sopra al cadavere, legata con una corda, c’era una targa rettangolare di piombo. Recava la scritta: “Sconosciuto 1945″». La figlia di Sebastiano Caprino è ora una nota pittrice, e la targa legata al cadavere di suo padre titola le copertine dell’ultima fatica di Giampaolo Pansa (Sperling & Kupfer Editori, 18 euro), una fatica “dovuta” ai duemila che come lei hanno letto “Il sangue dei vinti” e scritto all’autore per raccontare la loro verità. E ci eravamo sbagliati a pensare che il dibattito potesse esaurirsi: «A una settimana dall’uscita hanno innescato polemiche di ogni tipo, la più assurda su un giornale che nemmeno mi è lontano, Europa, con un pezzo folle di Federico Orlando».
Cosa fa più paura a chi la attacca: la verità che lei ha raccontato o il fatto che fosse lei, dichiaratamente antifascista e di sinistra, a raccontarla?
Il fatto che fosse stato un giornalista, che è sempre stato ed è antifascista, che appartiene alla sinistra anche se non so più bene a quale sinistra – mi considero un moderato, e mi piace Prodi anche per questo -, a sfondare una porta che un ordine tacito vietava di aprire. A uno di destra avrebbero dato del bugiardo. Con me è andata peggio: uno del loro campo, il primo italiano a laurearsi con una tesi sulla Resistenza, ha scatenato la rabbia dell’antifascismo odierno, molto più ottuso di quello che c’era anche solo 10 anni fa. Perché oggi l’arrivo di Berlusconi al potere – che non mi piace e non l’ho mai votato – ha mandato in tilt le istituzioni che detenevano il monopolio della Resistenza. Non appena hanno visto il diavolo arrivare, hanno urlato «c’è il golpe», «Salvador Allende in Cile», «che vergogna», ma non sono scese in campo e quello che rimane dell’Anpi, non è che una setta ideologica che non fa altro che scomunicare quelli che non ragionano come vorrebbe lei. Solo chi ragiona in questo modo in Italia non ha mai comandato, e non comanda i lettori.
Non le viene voglia di chiudere il cerchio andando a ripescare i figli dei carnefici di Solaro, Gobbato.
Ho 70 anni ed è da quando ne avevo 19 che li faccio parlare. Metà del paese era costretto a stare zitto, bambini di quel tempo diventati poi adulti che lavoravano per costruire, come gli altri, un paese decente e dovevano tenere la bocca chiusa. Non le sembra un gesto di ribellione cristiana? Devono parlare solo i vincitori? E gli esclusi? Possono sperare solo di parlare quando vanno in paradiso, se ci credono e se lo meritano? No, devono parlare sulla terra e io, Giampaolo Pansa, giornalista antifascista e di una qualche sinistra, li ho ascoltati.
Cosa l’ha stupito nell’accomunare 40 storie così diverse?
Una parola, dedicata a me: grazie. E sorridevano a un signore con i capelli bianchi, che ha bussato alla porta, dicendo: se hai voglia raccontami la tua storia, sono pronto ad ascoltarla, e se è possibile, anche a pubblicarla. E di storie ne ho trovate a centinaia, seguendo la vecchia regola dei caporedattori: raccogliete 150 per usare 100.
Molti di loro erano poco più che bambini, come lei in quegli stessi anni. Che ruolo hanno giocato i suoi ricordi?
Una giornalista di Marsiglia un giorno mi ha detto: «Giampaolo, tu sei come me: un bambino della guerra». Ero un bambino quando ho visto i partigiani della banda Tom, costretti dai fascisti a marciare per chilometri dentro la neve a piedi nudi, legati con le catene dei buoi. I fascisti chiusi in gabbie di legno, picchiati e portati sulle sponde del Po per essere fucilati. E quando giovedì scorso ho introdotto il mio libro dicendo che i figli dei fucilati del 25 aprile erano cittadini di questa Repubblica a pieno titolo, tra più di 300 persone che affollavano la sala dell’Astoria di Reggio Emilia, un signore si è alzato: «Io mi sento un cittadino di serie B. Perché è 60 anni che cerco il corpo di mio padre fucilato dai partigiani, e non l’ho mai trovato». Un altro: «Non sapevo stesse scrivendo questo libro, altrimenti l’avrei cercata per monti e mare. Dopo che hanno legato mio padre per i piedi col fil di ferro e l’hanno trascinato per il paese legato a un camion, non si è saputo più nulla di lui». No, quello che so io di queste vicende è in realtà ancora molto poco.
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