
Sako: «Un “regime civile” per il mio amato Iraq»

Articolo tratto dal numero di febbraio 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
L’hanno chiamata Primavera araba 2.0, ed effettivamente le somiglianze con gli avvenimenti del 2011 sono parecchie: da Khartoum a Beirut, da Algeri a Baghdad e a Bassora, le piazze degli Stati arabi si sono riempite di studenti, lavoratori ed esponenti della società civile esasperati dalla corruzione dei governanti, dalla repressione poliziesca, dal fallimento delle istituzioni; come allora alcune proteste hanno ottenuto la deposizione o le dimissioni di presidenti e capi di governo, altre sono state e sono tuttora represse nel sangue. È il caso dell’Iraq, dove le manifestazioni contro le milizie filo-iraniane e contro il governo sono iniziate nel luglio 2018 e sono riprese con intensità nell’ottobre scorso e hanno provocato le dimissioni del primo ministro Adel Abdel Mahdi (1 dicembre).
L’uccisione su suolo iracheno da parte americana di Hossein Soleimani, comandante della Forza Al Qods dei Guardiani della rivoluzione iraniana, e di esponenti di punta delle milizie irachene sciite filo-iraniane, ha rischiato di trasformare l’Iraq in un campo di battaglia fra truppe straniere e loro fiancheggiatori locali più di quanto già non lo sia da anni. Incurante del pericolo (le vittime della repressione dei moti si calcolano a più di 300), il patriarca caldeo Louis Raphael Sako, creato cardinale da papa Francesco nel giugno 2018, ha portato il suo saluto ai manifestanti il 2 novembre scorso recandosi in piazza con altri vescovi e ha dichiarato il sostegno della Chiesa alle loro rivendicazioni. Noi lo abbiamo intervistato alla vigilia della sua partenza per Roma per il summit dei patriarchi orientali dei primi di febbraio.
Eminenza, lei ha dichiarato il suo appoggio ai manifestanti che da ottobre hanno ripreso le loro proteste antigovernative a Baghdad e in altre città dell’Iraq. Quali sono le richieste che lei approva e sostiene?
Hanno chiesto una patria, chiediamo una patria, perché oggi non c’è. Una patria per avere la giustizia, l’uguaglianza e la dignità per tutti i cittadini. Non è strano che i vescovi li appoggino, perché queste richieste sono basilari anche a livello della fede. Gesù ha promosso la dignità umana, il rispetto, la vita, la giustizia, la pace: sono le stesse cose che questa gente chiede. Noi viviamo il settarismo, la corruzione, l’ingiustizia, la diseguaglianza; e c’è la questione del ruolo dell’Iran che divide il paese. È la prima volta dalla fine del regime di Saddam Hussein che il sentimento nazionale domina le manifestazioni di piazza, ed è anche un sentimento religioso: trovo ciò una cosa splendida. Per questo ho visitato i manifestanti in piazza e i feriti negli ospedali, e ho portato medicine per loro. Va notato che la grande maggioranza dei manifestanti è sciita: sono sciiti che manifestano contro un governo nazionale dominato dagli sciiti. Ci sono alcuni altri, ma la grande maggioranza sono sciiti che vivono in città e province dove regna la miseria: non ci sono progetti di sviluppo, non ci sono scuole e ospedali, servizi pubblici, eccetera.
C’è una qualche possibilità che le richieste dei manifestanti siano esaudite? Il mondo politico iracheno ha le risorse per fare meglio di quello che ha fatto nei sedici anni trascorsi dalla caduta di Saddam Hussein?
In questi sedici anni la classe politica non è riuscita a realizzare nessun progetto. Quasi tutto il denaro disponibile se lo sono rubato fra di loro: regna una corruzione totale. Tutte le infrastrutture che abbiamo – i ponti, le strade – risalgono al tempo di Saddam Hussein e stanno andando in rovina. I governi successivi non hanno costruito quasi niente, solo alcune piccole opere. Non possono esaudire tutte le richieste dei manifestanti, perché rischierebbero di dover lasciare i loro posti di potere, che permettono loro di salvaguardare i loro interessi. Ma non possiamo continuare così, dobbiamo cambiare. Qualcosa i manifestanti hanno già ottenuto: il primo ministro si è dovuto dimettere, ed è stata presentata una nuova legge che prevede una commissione elettorale in grado di controllare che le elezioni siano veramente libere e oneste. E altro ancora viene richiesto: un cambiamento vero per recuperare la sovranità irachena, l’unità del paese e un regime civile basato sui diritti di cittadinanza: sarebbe l’ideale!
Cosa vuol dire “regime civile”?
In Europa direste “Stato laico”, ma qui parlare di Stato laico provocherebbe una ribellione generale, perché “laico” viene inteso come “contro la religione”. E questo è un po’ vero, perché l’Occidente con la sua secolarizzazione ha svuotato tutti i valori spirituali e religiosi. “Regime civile” vuol dire un sistema politico dove la religione non interviene direttamente nella vita sociale, ma i valori religiosi sono rispettati in quanto necessari per una società.
Lei ha espresso il timore che l’Iraq sia trasformato in campo di battaglia di interessi stranieri e privato della sua sovranità, soprattutto dopo gli eventi accaduti all’inizio dell’anno. Ma questa non è in fondo la situazione che prevale nel paese già da molti anni?
Il nostro paese confina con Stati come l’Iran, la Turchia, la Siria, l’Arabia Saudita, eccetera: qui da noi si scontrano interessi internazionali. In particolare l’Iran esercita una grande influenza in nome dello sciismo. Questo sentimento religioso può essere accettato, non fa problema, ma non deve annullare il sentimento nazionale o l’interesse del nostro paese, la dignità irachena. L’altra grande influenza esterna è quella americana. Gli americani sono venuti per i loro interessi, non per fare beneficenza: non sono la Caritas Internationalis! I manifestanti chiedono di recuperare la sovranità irachena, che il governo non ha saputo promuovere, lasciando spazio alla crescente influenza di iraniani e americani. Una guerra fra americani e iraniani in questo momento costituirebbe una tragedia, perché sarebbe una guerra per procura sul territorio iracheno, e a pagarne il prezzo sarebbero soprattutto gli iracheni innocenti.
Nelle prime manifestazioni c’erano molti slogan contro l’Iran, adesso pare che i manifestanti critichino gli Usa e l’Iran allo stesso modo. Conferma?
La situazione che si è creata ha prodotto questo, ma loro insistono soprattutto per un Iraq libero, democratico, sovrano che garantisca uguaglianza, giustizia e dignità a tutti. Talvolta ci sono questi slogan contro gli iraniani o contro loro e gli americani, ma non sono i più forti. Il più forte è quello per il cambiamento del regime, che dovrebbe diventare democratico ed essere diretto da persone competenti.
Il parlamento iracheno, senza la presenza dei deputati curdi e sunniti, ha votato per la chiusura delle basi americane in Iraq. Lei cosa ne pensa?
Non è il momento giusto per farlo, si creerebbe un pericoloso vuoto. Prima bisogna formare il nuovo governo, possibilmente un nuovo parlamento, e dopo si potrà discutere la presenza delle basi e chiarire i termini dell’impegno militare americano in Iraq, a quali scopi deve rispondere. Gli americani non sono gli unici ad avere una presenza militare in Iraq, anche per quanto riguarda gli altri bisogna fare chiarezza su ruolo e scopi. Se queste presenze hanno lo scopo di lottare fra di loro, questa è una cosa molto grave. Per il momento è meglio mantenere gli equilibri esistenti. Non è il momento giusto per discutere questo problema, attorno al quale non c’è unità, come dimostra il comportamento di curdi e sunniti.
Lei continua a intervenire sul tema della discriminazione strisciante dei cristiani e delle altre minoranze religiose, che persiste anche dopo la sconfitta dell’Isis.
Ci sono leggi che emarginano i non musulmani, nella vita quotidiana sono cittadini di seconda categoria. Il governo non ha realizzato niente per i cristiani che hanno sofferto molto da parte dell’Isis: né scuole, né posti di lavoro, né posti nel governo; i cristiani e le altre minoranze sono fuori gioco. Non chiediamo privilegi: lo Stato iracheno deve essere basato sui diritti di cittadinanza, e non sull’appartenenza religiosa e confessionale. Per avere giustizia e uguaglianza occorre un regime civile dove le leggi sono uguali per tutti a prescindere dalla loro religione. Occorre riformare la costituzione così che ogni cittadino abbia i suoi diritti e i suoi doveri. Se vogliamo progredire, dobbiamo fare quello che oggi il mondo intero fa: uscire dalla mentalità confessionale, che divide il paese, creare uno Stato democratico e civile.
Diceva prima che il governo non ha fatto nulla per la ricostruzione dei villaggi cristiani e delle loro chiese.
Non solo per i cristiani, per tutti! Non pensano a servire la gente. Da sedici anni pensano solo all’interesse loro. Dopo sedici anni dalla fine della guerra fra americani e Saddam ancora non c’è elettricità per tutta la giornata, eppure siamo un paese ricco! Pensano solo al loro partito, alla loro coalizione, confessione, tribù, non al bene comune. Noi grazie a Dio con l’aiuto delle Chiese del mondo e delle Ong abbiamo riparato le case, aiutato i cristiani a rientrare. Ma il governo non ha fatto niente: dicono che non hanno soldi per la ricostruzione. La verità è che i soldi sono finiti tutti nelle loro tasche…
Al di là delle omissioni e della latitanza dello Stato, a che punto è la ricostruzione, soprattutto a Mosul e nelle aree abitate dai cristiani nella Piana di Ninive, più di due anni dopo la fine ufficiale della guerra contro l’Isis?
Tutto quello che è stato fatto arriva dalla Chiesa, attraverso gli aiuti che ci hanno fornito le altre Chiese nel mondo, e le Ong. Il governo ha fatto solo qualcosa per Mosul, che è ancora distrutta per l’80 per cento. A Mosul sono rientrate soltanto 40 famiglie cristiane. Abbiamo restaurato la chiesa caldea di san Paolo e i siro cattolici hanno aperto una parrocchia. Nei villaggi della Piana di Ninive sono rientrati più del 50 per cento dei residenti. Alcuni hanno trovato lavoro in Kurdistan, e restano lì; altri non rientrano perché non c’è più fiducia coi loro vicini musulmani, che hanno saccheggiato le loro case quando sono fuggiti nel 2014. I siro-ortodossi non sono rientrati a Mosul, il vescovo ha costruito cattedrale e vescovado a Erbil. La vicenda dell’Isis ha fatto esplodere una situazione da sempre problematica: in Iraq vige ancora una cultura di stampo tribale, beduina, settaria, ostile alla convivenza. I programmi scolastici e i discorsi dei leader religiosi devono cambiare: ci vorrà molto tempo.
Prosegue l’emigrazione dei cristiani dal paese?
Meno che in passato. C’è ancora emorragia nella Piana di Ninive, soprattutto a Qaraqosh; a Baghdad meno. Se ci fosse stabilità, quelli che non sono andati in Europa o America, ma si sono trasferiti in Giordania, Libano e Turchia, tornerebbero. Per ora non penso che lo faranno.
C’è speranza che la visita di papa Francesco in Iraq finalmente si materializzi nel 2020?
Penso che per il momento non ci sia possibilità. Per la sua visita sono necessarie buone condizioni di sicurezza, e adesso non ci sono proprio. Bisognerà anche preparare la gente a questa visita. Teoricamente potrebbe realizzarsi verso la fine dell’anno se le cose si calmano. Ma per il momento penso di no.
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