
Sanità da regione rossa
L’opposizione accusa il governo di “demolire” la sanità pubblica e questa posizione gli sta fruttando nella popolazione un consenso insperato. La maggioranza, in molti casi, non è in grado di spiegare il progetto (razionalizzazione dei costi e dismissione di presidi inadatti e costruzioni di nuovi nosocomi di qualità), cosicché l’operazione passa sotto gli occhi dell’opinione pubblica attraverso il refrain: “La destra chiude gli ospedali”. Ma ci si è chiesti cosa succede nelle regioni amministrate dal centrosinistra? Cosa è successo negli anni scorsi? Vediamo alcune regioni “rosse”:
Emilia Romagna – Ha già accorpato servizi e ristrutturato la rete ospedaliera, diminuendo posti letto e chiudendo piccoli presìdi. Le proteste di comitati e cittadini non sono mancate: resta epica la battaglia per l’ospedale a Comacchio.
Toscana – La ristrutturazione della rete ospedaliera è stata attuata nel corso di dieci anni. Dal 1992 ad oggi i presìdi ospedalieri sono passati da 93 a 40 ed i posti letto si sono ridotti dai 26mila del ‘92 (23mila pubblici e 3mila privati), ai 15.400 del 2002 (12.600 pubblici e 2.800 privati).
Marche – Sono in discussione una proposta di legge per il riordino della sanità e il nuovo piano sanitario regionale. Le tredici Asl attuali dovrebbero essere riunite in un’unica azienda, mentre le aziende ospedaliere passerebbero da quattro a due. I posti letto invece dovrebbero diminuire da 7.200 a 5.800.
Umbria – Ha già attuato il riordino ospedaliero, con riconversioni e accorpamenti che hanno consentito di raggiungere il parametro di 4 posti letto per acuti ogni mille abitanti. Il nuovo piano sanitario regionale, in discussione in consiglio entro ottobre, interverrà soprattutto nell’assistenza territoriale.
Alla luce dei fatti le Regioni amministrate dal centrosinistra non sono certo sfuggite alla mannaia della “ragione di bilancio”, anzi hanno operato ed operano in perfetta linea con questa “religione”. Oggi sembra essere Berlusconi colui che ha trasformato le Usl in Asl, ma la realtà è ben diversa. Fu l’allora ministro De Lorenzo (governo Amato), che nel 1992 attuò una riforma sanitaria nazionale che poneva le prime basi per una destatalizzazione del servizio pubblico. Il principio regnante di quella legge rispondeva all’esigenza di identificare gli ospedali come aziende. Chi proseguì su quella linea? Dopo la caduta di D’Alema e l’ingresso di Amato (rieccolo) il nuovo ministro della sanità Veronesi si preoccupò immediatamente di applicare il decreto Bindi in quelle parti che si avvicinavano maggiormente al concetto di privatizzazione. L’esempio più immediato riguarda l’applicazione della cosiddetta libera professionalità. In pratica, il decreto Bindi introduceva il concetto per cui i medici dovevano avere a disposizione, in ogni struttura ospedaliera pubblica, dei posti letto utilizzabili per un rapporto diretto paziente-medico. Il provvedimento sarebbe rimasto inattuato, vista la mancanza di strutture adeguate e l’assenza di uno stanziamento apposito, ma il ministro Veronesi, in men che non si dica, vi pose rimedio. Con un’operazione da abile contabile ha prelevato 3mila degli 8mila miliardi stanziati dalla finanziaria 2000, destinati alle opere edilizie per il servizio sanitario nazionale, e li ha destinati alla realizzazione di strutture fisiche atte ad abilitare la libera professione all’interno degli ospedali pubblici. A questo punto mi piacerebbe sapere chi sarebbe in grado di contestare queste realtà storiche. Il risultato di un’operazione di questo tipo metterebbe in evidenza immediatamente due macrocontraddizioni: 1) Il centrosinistra all’opposizione sbraita contro le privatizzazioni, quando è al governo le mette in atto. 2) Vista la nuova tendenza all’unità antiberlusconiana, Rifondazione cosa ha da dire in merito a tutto questo?
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