Sarajevo. «C’è un piano preciso per cacciare i cattolici»

Di Leone Grotti
01 Dicembre 2019
Parla il cardinale arcivescovo Vinko Puljic: «Gli islamici sono oltre il 90% degli abitanti. Bruxelles non vede il pericolo che corre»

Articolo tratto dal numero di ottobre di Tempi

«Quando ti ho consacrato arcivescovo di Sarajevo nel 1990, non avevo idea che la tua croce sarebbe presto diventata così pesante e il tuo calice così amaro». Così Giovanni Paolo II si rivolse al cardinale Vinko Puljic, quando riuscì finalmente a visitare la capitale della Bosnia ed Erzegovina nel 1997. Ci aveva già provato nel 1994, durante l’assedio che durò 1.425 giorni e fece 11.541 vittime. Glielo impedirono e allora il Papa polacco, in tre anni e mezzo di assedio, parlò della perla dei Balcani 263 volte, contribuendo al raggiungimento della pace. Una targa in marmo all’entrata della sede arcivescovile ricorda la visita pastorale di Wojtyla e il cardinale Puljic, che durante la guerra non ha mai rinunciato a visitare le sue parrocchie sotto le bombe, non ha dimenticato le parole che Giovanni Paolo II rivolse al popolo bosniaco: «Preghiamo il Principe della Pace perché Sarajevo diventi per tutta l’Europa un modello di convivenza e di pacifica collaborazione fra popoli di etnie e religioni diverse». È proprio questa la nuova croce di Puljic, il cardinale elettore di più antica nomina, che ci accoglie nei suoi uffici dopo aver celebrato insieme al cardinale Stanisław Dziwisz il 130esimo anniversario della cattedrale di Sarajevo: «C’è un esodo silenzioso dei cristiani da Sarajevo e dalla Bosnia e anche se non si può dire pubblicamente siamo discriminati».

Eminenza, sono passati quasi 25 anni dalla fine dell’assedio. Com’è cambiata Sarajevo?

Sarajevo era una città multietnica, multiculturale e multireligiosa. Durante la guerra, tutti dicevano che l’unica cosa che funzionava nel paese era la Chiesa cattolica. Ora è cambiato tutto: dopo la guerra i serbi se ne sono andati, tanti musulmani si sono stabiliti qui da Oriente e per i croato-cattolici è cominciato un brutto clima.

A che cosa si riferisce?

Oggi a Sarajevo non c’è uguaglianza, la città non è più multietnica perché oltre il 90 per cento dei suoi abitanti sono musulmani. I paesi arabi comprano le proprietà, costruiscono moschee e centri religiosi, cambiando la mentalità della popolazione e il clima di convivenza che si respirava prima. La maggioranza musulmana si fa sentire non solo a livello politico, ma anche amministrativo. È difficile parlare di queste cose in pubblico, perché i media sono tutti in mano musulmana e ti attaccano se denunci questa situazione. Ma è così.

Quanti sono oggi i cattolici a Sarajevo?

Prima della guerra eravamo il 14 per cento, circa 40 mila fedeli. Oggi siamo al massimo 12 mila. È il frutto di una precisa strategia delle autorità. Quando ad esempio ho trovato un terreno per costruire una chiesa, l’unica edificata dopo la guerra, ci ho messo 10 anni per ottenere i permessi necessari e ho persino dovuto comprare la terra su cui edificarla. Se penso alle migliaia di proprietà che ci sono state requisite sotto il comunismo e che nessuno ci ha mai restituito, è un insulto.

La Bosnia è l’unico paese ex comunista a non avere approvato una legge sulla restituzione delle proprietà. Quante ne mancano all’appello?

C’è molta ipocrisia su questo tema. A livello formale non c’è una legge, è vero, ma la Repubblica Srpska ha restituito quasi tutto agli ortodossi. Allo stesso modo, la Federazione di Bosnia ed Erzegovina ha ridato quasi tutto ai musulmani. Nessuno invece difende i cattolici e subiamo l’onta che molte nostre proprietà sono addirittura state cedute ad altri.

Si può parlare di discriminazione?

È la realtà. Siamo tutti bosniaci, ma basta guardare il nome sulla carta di identità per capire qual è l’etnia e la religione di appartenenza di una persona. E se sei cattolico, ottenere qualsiasi permesso è più difficile, per non parlare della ricerca del lavoro. La Bosnia riceve finanziamenti per la ricostruzione dopo la guerra, ma noi non riusciamo mai ad accedere a questi fondi.

Oggi Sarajevo è ancora, come in passato, la “Gerusalemme d’Europa”?

Noi cattolici siamo ancora presenti in questa città e vogliamo restare. La nostra cattedrale è in centro e Sarajevo non è solo la capitale dei musulmani, ma di tutti i cittadini. Purtroppo la politica, locale e internazionale, non pone le basi per aiutare la convivenza.

Migliaia di giovani abbandonano il paese ogni anno. Perché?

Dopo gli accordi di Dayton, che hanno istituzionalizzato la politica etnica in Bosnia, i diritti non sono uguali per tutti. E così i giovani si stancano e se ne vanno, anche perché non trovano sbocchi lavorativi e non riescono a realizzare le proprie potenzialità.

Lei critica gli accordi di Dayton, che però hanno sancito la fine alla guerra.

Grazie a Dio hanno fermato la guerra, ma non c’era una strategia per costruire uno Stato normale. Con gli accordi la minoranza cattolica ha perso i suoi diritti. Abbiamo bisogno di uno Stato dove i cittadini e le comunità abbiano uguali diritti.

La politica è divisa sull’adesione della Bosnia alla Nato. Che cosa ne pensa?

Non è facile capire il nostro paese, siamo un crocevia tra Oriente e Occidente, tra interessi locali e internazionali. I serbi hanno ricevuto una parte del paese e sognano sempre di riunirsi alla Serbia. Siamo sotto l’influsso della Russia da una parte e dall’altra di Arabia Saudita e Stati Uniti. Ma il problema principale è che l’Europa non capisce il pericolo che corre, non ha una visione per la Bosnia. La guerra era guidata da grandi paesi e molti lavorano ancora sotto traccia per la divisione.

Che cosa non capisce l’Europa?

Guarda solo a se stessa e quando parla della Bosnia immagina un sincretismo di religioni e culture. Questo è sbagliato, bisogna rispettare e preservare la nostra identità e diversità.

Il 15 settembre avete festeggiato i 130 anni della cattedrale del Sacro Cuore. È un segno di speranza?

Sì. La nostra cattedrale è un simbolo perché è sopravvissuta a tre guerre terribili. Durante l’assedio è stata danneggiata in modo pesante, ma l’abbiamo restaurata. E il grande lampadario che la illumina proviene dalla basilica di San Pietro, ce l’ha donato Giovanni Paolo II.

Wojtyla disse: solo con la pace e il perdono la Bosnia sopravviverà.

È proprio così, non c’è alternativa. L’unica strada è dialogare, ciascuno nel rispetto della propria identità e diversità.

Che cosa ha lasciato la visita di papa Francesco nel 2015?

Quel giorno c’è stata una grande accoglienza, è stata una luce fulgida per tutta la città. Ma dal giorno dopo, i media hanno dimenticato tutto.

Qual è la missione della Chiesa bosniaca?

Siamo una comunità piccola, possiamo fare poco. Io come pastore e tutto il mio popolo abbiamo portato una croce molto pesante durante la guerra. Ma per noi è importante essere Chiesa vera, coraggiosi testimoni che mostrano una via per il dialogo. Non nella teoria, ma nella vita di ogni giorno. L’unica scuola multietnica del paese è quella cattolica. L’80 per cento delle persone aiutate dalla Caritas sono di religione musulmana. Noi aiutiamo tutti gli uomini.

Vuole condividere un ricordo della guerra?

Non amo parlarne. Io sono sopravvissuto e ho visto cose terribili: troppi morti, troppo sangue, troppe bombe. Non avevamo luce né acqua. I vetri delle finestre erano tutti infranti e in inverno non potevamo scaldarci. Sono stato testimone di cose orribili e non voglio più parlare di quegli avvenimenti.

Foto Leone Grotti

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