
Sbriglia: «La disperazione nelle carceri continua a mietere vittime»
È addolorato, Enrico Sbriglia, direttore del carcere Coroneo di Trieste. Pochi giorni fa un detenuto, Michele Misculin, 33 anni, è stato trovato morto dai suoi compagni di cella sulla branda più alta del letto a castello. «Stiamo aspettando l’autopsia, ma non credo si sia trattato di suicidio» racconta a Tempi.it. «Ci avevo parlato poche ore prima del decesso, perché avevo appena firmato una serie di documenti che certificavano che il carcere non fosse il posto adatto in cui fargli scontare la pena». Michele era un tossicodipendente, in cella con altri tossicodipendenti «purtroppo abbandonati a loro stessi. È una morte cosiddetta “di carcere”: le persone malate non devono stare rinchiuse in una casa circondariale, ma nei luoghi deputati alla salute». Sbriglia è anche il segretario nazionale del Sidipe, il sindacato dei direttori e dirigenti penitenziari, e parla di una situazione tanto problematica da non poter essere ulteriormente rimandata: sprechi, disfunzioni croniche, malasanità e fortissima demotivazione del personale penitenziario, stritolato da un sistema «che non guarda le persone e ne annulla i diritti umani».
Il ministro della Giustizia, Paola Severino, ha detto che non ricorrerà all’indulto per affrontare il dramma del sovraffollamento delle carceri. Dal punto di vista pratico, l’amnistia non potrebbe essere una soluzione?
«Credo fermamente che l’animo compassionevole e la mitezza della giustizia costituiscano punti di forza di uno Stato e non di debolezza. Premesso questo, dal punto di vista strettamente amministrativo-contabile ritengo che si debba necessariamente pensare a risposte statali straordinarie. L’emergenza è sotto gli occhi di tutti e richiede soluzioni. L’amnistia è una di queste. Rimango basito quando sento di soluzioni che richiederebbero tempi lunghi e che avrebbero effetti modesti, a meno che non si voglia stravolgere il catalogo dei reati e delle pene. Non è credibile e serio pensare che possa realizzarsi nell’arco di pochi mesi, e pochi mesi sono già tanti, perché la nave della disperazione penitenziaria continuerà a bruciare e mietere vittime tra i detenuti. E non solo tra loro, visti i gesti disperati di molti operatori penitenziari».
Secondo un’obiezione comune l’amnistia rappresenterebbe il fallimento di uno Stato, meglio sarebbe un intervento legislativo che limiti l’ingresso in carcere. Cosa risponde?
«Chi pensa che con misure blande si possa evitare il peggio non ha capito a che inferno e a quale urgenza siamo davanti. È esattamente il contrario: solo con un’amnistia potremmo salvare l’onore dello Stato, uno Stato che davanti all’oggettiva difficoltà di fare giustizia – i processi penali pendenti sono milioni – ha il dovere di fare una scelta, forse impopolare, ma necessaria. Oggi sappiamo solo irrogare torture prolungate ed apparentemente invisibili ai detenuti, raggiriamo le vittime dei reati, che aspetteranno inutilmente la celebrazione dei processi, i servitori dello Stato e gli onesti, che vedono sfuggire i peggiori criminali attraverso lo stratagemma della prescrizione».
I braccialetti elettronici sono inutilizzati da anni, dopo un investimento di oltre 100 milioni di euro. Usarli potrebbe cambiare qualcosa?
«Non sono contrario in linea di principio, ma credo che in questo momento sia prioritario stipulare il primo contratto di lavoro dei dirigenti penitenziari, che lo stanno aspettando da oltre sei anni. E sfruttare le ingenti risorse che rimarrebbero per l’assunzione di nuovi direttori, nuovi educatori, nuovi assistenti sociali, ingegneri ed architetti, psicologi e personale di polizia penitenziaria. Sono le risorse umane a garantire la pace dentro le carceri, non certo l’apparato di controllo: non siamo neanche in grado di assicurarne la manutenzione ordinaria».
A quali difficoltà va incontro ogni giorno?
«Le mie difficoltà sono quelle di tutta una categoria. Ogni giorno è sempre più difficile: ti senti un bugiardo, costretto a recitare promesse solenni di un carcere rieducativo, mentre sai bene che non hai i mezzi per farlo. Bugiardo perché esorti le persone detenute a responsabilizzarsi di fronte a se stesse e al mondo, mentre tu ti ritrovi nella sostanza a non rispettare le leggi. Bugiardo perché osservi con i tuoi occhi una giustizia cieca o di classe, che stana senza pietà l’immigrato irregolare e il tossicodipendente, ma concede misure alternative al carcere al colletto bianco. Vedo gli agenti di polizia penitenziaria invecchiare prima del tempo, vedo perdersi quei valori fondamentali di equità, giustizia, serenità che dovrebbero contraddistinguere l’azione penitenziaria. Far dormire i detenuti su materassi poggiati direttamente a terra, vederli sbattuti lontani centinaia di chilometri dalle loro famiglie, non consentire alle persone di poter avere cure appropriate, ogni giorno combattere per riuscire ad acquistare delle misere lampadine o per riparare i bagni e le docce. Passare per i corridoi detentivi e vedere le braccia di gente che implorano attenzione e aiuto da celle sovraffollate e sporche. Tutto questo non rappresenta quell’idea di carcere e di risposta statuale che ritenevo dovessimo dare anche a quanti avessero, con intenzione, con cattiveria, con disumanità, violato la legge. Vogliamo tornare ad essere servitori dello Stato, non complici di illegalità».
Lei è anche segretario nazionale del Sidipe. Come sindacato avete avviato qualche colloquio con il governo Monti? Quali sono le vostre richieste?
«Nei prossimi giorni formalizzeremo una richiesta d’incontro, per fornire con precisione tutte le informazioni sullo stato in cui si trova il sistema dell’esecuzione penale, disegnando possibili scenari strategici in relazione ai diversi rimedi che potrebbero delinearsi. E per ciascuno, indicando le risorse economiche, umane e di tempo necessarie. Altrimenti, si fingerà di fare alta amministrazione, mentre di fatto ci si limita ad aspettare. Senza capire che l’emergenza rischia di diventare catastrofica, e forse davvero violenta. Il sovraffollamento non è uno scherzo. Provi a mettere dentro un ascensore per 10 persone un numero di 20, l’ascensore non partirebbe e suonerebbe un allarme. L’ascensore delle carceri, invece, con circa 69 mila corpi di persone detenute accatastate dove potrebbero forse starcene 41 mila, continua a funzionare. Diretto nel profondo baratro penitenziario».
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