
«Scholz, ma qual è il problema?». Sull’Ucraina la Germania si è smarrita

Dove va e che cosa vuole la Germania? Se lo chiedono tutti a Washington, a Bruxelles, a Kiev ma nessuno ha la risposta. La «Zeitenwende» annunciata dal cancelliere tedesco Olaf Scholz il 27 febbraio con uno storico discorso davanti al Bundestag, il cambio di paradigma a 180 gradi di Berlino su riarmo e politica estera, è ancora lettera morta. Il sostegno all’Ucraina per fronteggiare l’invasione russa procede a corrente alternata e vive di strappi: ogni volta che un politico di peso critica le mosse tedesche, la nuova coalizione al governo risponde con nuove promesse. Ma lo iato tra le parole e i fatti è sempre più evidente.
«Scholz, ma qual è il problema?»
Partendo dalla fine della storia, è emblematica la domanda che il premier Mario Draghi ha rivolto al cancelliere tedesco durante il Consiglio europeo straordinario teatro dell’accordo sull’embargo al petrolio russo: «Mi fai capire bene qual è il problema?». Nessuno infatti nell’Unione Europea si sarebbe aspettato che, una volta caduto il veto ungherese, sarebbe stata proprio la locomotiva d’Europa a mettere i bastoni tra le ruote all’accordo.
L’oleodotto Druzhba, che continuerà a far fluire il petrolio russo verso l’Ungheria anche dopo che l’embargo sarà entrato in vigore, è collegato infatti anche alle raffinerie tedesche. E Berlino inizialmente si è rifiutata di garantire che non ne avrebbero usufruito, ottenendo così un vantaggio competitivo illegittimo rispetto ai partner europei. Alla fine, la Germania ha allegato alle conclusioni del Consiglio una dichiarazione formale sullo stop agli acquisti dall’oleodotto incriminato. Lo ha fatto per «evitare insinuazioni dei nostri amici», ma se gli “amici” non avessero protestato, Berlino sarebbe rimasta ambigua, continuando a traccheggiare.
La Polonia accusa la Germania
Dopo l’Italia, è stata la Polonia a fare il pelo e contropelo alla Germania, accusandola di non aver mantenuto la promessa sulle forniture di armi all’Ucraina. Per permettere a Varsavia di inviare i blindati T-72 di fabbricazione sovietica a Kiev, Berlino avrebbe dovuto cedere alla Polonia carri armati Leopard. I polacchi stanno ancora aspettando e il presidente Andrzej Duda, spazientito, è passato al contrattacco. Il governo tedesco, «esterrefatto» dall’accusa, si è giustificato spiegando che Varsavia non si accontenta dei Leopard ma vuole i modernissimi 2A7, che Berlino non è intenzionata a condividere.
Come già accaduto in precedenza, per difendersi dalle illazioni, Scholz si è presentato mercoledì in Parlamento per difendere la linea tedesca e per annunciare che invierà a Kiev il sistema missilistico antiaereo Iris-T. Ma a tanti è parso solo un modo per distogliere l’attenzione dalle critiche.
Le armi promesse a Kiev non si vedono
Che fine hanno fatto, si chiedono a Kiev, i 30 carri antiaerei Gepard e altri blindati promessi da Berlino il 28 aprile per aiutare l’Ucraina a difendersi dall’«inaccettabile imperialismo» di Vladimir Putin? A un mese di distanza dall’annuncio il governo di Volodymyr Zelensky non li ha ancora visti. Il problema, come riportato da Reuters, è che la Germania ha i carri ma non le munizioni.
La prima metà della fornitura, comprensiva di munizioni, potrebbe arrivare a Kiev a fine luglio, il resto a fine agosto ma non è detto che l’esercito ucraino potrà utilizzare comunque i carri. È infatti indispensabile che Berlino fornisca un’adeguata formazione ai soldati ucraini della durata di cinque settimane. Ma il programma di addestramento non è ancora iniziato. «Cosa aspettiamo? Perché non acceleriamo?», si è chiesto un membro della maggioranza, il verde Anton Hofreiter, che guida la Commissione esteri del Bundestag. A conti fatti, dall’inizio della guerra Berlino ha inviato 15 milioni di munizioni, 100 mila granate e cinquemila mine anticarro. Pochino, rispetto agli annunci fatti.
I tanti “no” di Berlino
Non è solo la riluttanza tedesca a inviare armi pesanti a Kiev a perplimere gli alleati europei. Due settimane fa Scholz ha demolito le speranze dell’Ucraina di entrare nell’Unione Europea opponendosi in modo categorico alla concessione di una «corsia preferenziale» al paese di Zelensky. Risultato: se tutto procederà senza intoppi, l’Ucraina potrà far parte del club di Bruxelles nel 2050 circa.
In precedenza, ad aprile, la Bundesbank aveva offerto a Scholz su un piatto d’argento un’ottima ragione per bloccare le sanzioni europee alla Russia sul gas, la vera arma nucleare a disposizione dei Ventisette. Uno stop improvviso delle forniture di gas russo, nelle previsioni della Banca centrale tedesca, avrebbe un costo per la Germania di 180 miliardi di euro solo nel 2022, circa il 5 per cento del Pil. Lo spettro della recessione ha spinto dunque il ministro delle Finanze Christian Lindner a dichiarare: «Il gas non può essere sostituito nel breve termine. Infliggeremmo più danni a noi stessi che ai russi».
La diplomazia di Scholz non funziona
Anche dal punto di vista delle relazioni diplomatiche, Berlino è in difficoltà. Nonostante l’ultradecennale politica tedesca di cambiare la Russia attraverso gli scambi commerciali sia fallita, come ammesso, se pur a fatica, dal presidente Frank-Walter Steinmeier, l’ex cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroder non ha voluto prendere le distanze in modo marcato da Mosca. E se non fosse stato per le pressioni alleate, il progetto Nord Stream 2 sarebbe ancora in piedi. Inutile dire che l’atteggiamento morbido di Berlino verso il Cremlino non ha portato i risultati sperati: per il momento Putin non vuole neanche sentir parlare di pace o cessate il fuoco.
Il fil rouge di ogni attività di Scholz nell’ambito della guerra in Ucraina è quello evidenziato dallo scienziato politico tedesco Volker Weichsel: «Durante questa crisi il governo tedesco ha agito costantemente molto tardi e soltanto in risposta a pressioni esterne».
Nel dubbio la Germania aspetta
Si torna così alla domanda di partenza: dove va e che cosa vuole la Germania? L’ambasciatore ucraino a Berlino, Andrij Melnyk, non ha dubbi: «L’impressione è che la Germania stia aspettando il cessate il fuoco, così che non ci sia più bisogno di prendere decisioni coraggiose». Prendere tempo, insomma, aspettando che la bufera passi.
L’attendismo della Germania, nella speranza che tutto torni più o meno come prima, può essere una buona strategia per le finanze pubbliche ma mal si concilia con il ruolo di guida europea. C’è già chi scommette sulla fine della leadership tedesca in Europa, nonostante l’annunciato riarmo senza precedenti. Per altri, la verità è solo che a Berlino serve tempo per calarsi in nuovo ruolo che negli ultimi 70 anni è stato semplicemente inconcepibile per il popolo tedesco, il quale non ha ancora smaltito le scorie delle tragedie del XX secolo.
«Per 70 anni», ragiona Weichsel, «la società tedesca ha creduto di poter prevenire la guerra semplicemente evitando di diventare un aggressore. Pensava che il suo ruolo fosse quello di continuare a scusarsi per gli errori compiuti. L’idea che qualcun altro potesse essere l’aggressore e che la Germania dovesse accorrere in difesa della vittima con le armi era semplicemente impensabile per ampi settori della società tedesca». La Germania, forse, deve solo imparare a ripensarsi. E questo processo «è appena incominciato».
Foto Ansa
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