Così ho mancato la festa scudetto

Non tifo e non seguo il calcio, eppure sono sceso a Napoli dalla Romagna per vedere di persona il trionfo tanto atteso. Ma ho sbagliato giorno

prima o poi sarebbe successo

tutto il mondo lo sapeva
ma così presto e così bene
nessuno se l’aspettava
la mattina del trenta aprile

quando i carri dei vietcong
dopo trenta anni di guerra
entrarono a Saigon

Con questi versi minacciosi e battaglieri nelle orecchie, versi di una canzone di Eugenio Finardi degli anni Settanta, prendevo la via di Napoli. Era già l’embrione di una mitologia: la mattina del trenta aprile, il giorno che i pronostici indicavano come data più che probabile della conquista matematica dello scudetto da parte della SSC Napoli. I trent’anni – anno più anno meno – di guerra, di umiliazioni e di sofferenze che i tifosi del Ciuccio avevano attraversato per arrivare a questo risultato. I napoletani come i vietcong, un esercito di popolo in armi contro forze soverchianti. C’erano tutte le premesse per una vittoria e una festa epocali. Da settimane, da mesi ormai gli amici di giù mi fomentavano per andare a vivere i festeggiamenti di persona. Giravano voci di automobili rubate appositamente per pittarle di azzurro, private del tettuccio per scorrazzare su e giù per il lungomare, rigorosamente armati. L’unico problema era individuare la data, ma dopo la vittoria contro la Juventus, i giochi parevano decisi. Il dado era tratto. La città – dicevano le voci – era una sola immensa polveriera pronta ad esplodere.

Napoli si prepara alla festa scudetto

Il primo ostacolo che si presentava era quello di trovare un posto per dormire. Sembrava che in tutta Napoli, in tempi recenti fattasi fitta di ostelli e bed&breakfast, non ci fosse più nemmeno un letto libero. I pochi posti disponibili stavano a prezzi disonesti. Alla fine mi assicuro un posto in ostello, in camerata da dieci, per un prezzo dieci volte superiore a quello ordinario. L’ostello, per colmo di fortuna, è nella zona della stazione, da anni ormai ostaggio dell’immigrazione africana. Alle dieci di sera mi presento in via Firenze, al terzo piano di un vecchio palazzo di abitazione. Un ragazzo con la pelle nera e un impeccabile parlata locale mi fa il check-in e mi mostra la camera. La mattina dopo – la mattina del 30 aprile – dopo una notte di sonni inquieti, mi alzo presto e sgombro il più in fretta possibile, per non perdermi niente.

Sbrigate le visite di rito ai siti artistici e religiosi – gli affreschi e le sculture di San Giovanni a Carbonara, l’altare del Pio Monte della Misericordia con la pala di Caravaggio, il crocifisso pregato da San Tommaso d’Aquino a San Domenico Maggiore – alle dodici sono seduto in un bar all’aperto di piazza san Domenico, davanti a un calice di vino bianco. Volevo solo prendere l’aperitivo ma alzo lo sguardo e vedo che si monta il maxischermo, e intorno comincia a formarsi una piccola folla. Tanto vale restare qui per la partita, dato che mi trovo nel cuore dell’antico centro storico, Spaccanapoli, tutto imbandierato a festa, gremito di gente, carico di elettricità.

L’umanità varia e fremente davanti ai maxischermi

Anzi, per le partite. La matematica infatti ha sancito che l’esito del campionato dipenda prima da quello di Inter- Lazio. L’Inter deve vincere. Probabilmente questo è il momento giusto per chiarire che non sono né tifoso né appassionato di calcio: sono qui in veste di etnografo dilettante e di patriota professionista. Devo guardarmi intorno con attenzione se voglio portare a casa la pelle. Entro in confidenza con un gruppo di ragazzi al tavolo a fianco, venuti da Caivano, centro tra i più malfamati dell’hinterland napoletano; mi raccontano che a Fuorigrotta, fuori dallo stadio, la situazione è già sul punto di precipitare. Intanto l’Inter lotta accanitamente per rimontare un gol di svantaggio, e ci riesce.

Davanti allo schermo tv del bar è raccolta un’umanità varia e fremente, dalla signora con cappello azzurro a tesa larga agli ultrà storici. I camerieri (pakistani o bengalesi, probabilmente ingaggiati per l’occasione) sono costretti ad atti di eroismo per fendere il muro di persone. Inter-Lazio finisce 3 a 1, l’entusiasmo tocca le stelle. Colgo il momento, la mezzora di pausa prima del fischio d’inizio di Napoli-Salernitana per fare una ricognizione nei dintorni. Il centro della città è preso d’assedio, anche la vicina sede dell’università occupata, a Mezzocannone, è piena di ragazzi che attendono l’inizio.

Una soddisfazione che Napoli aspetta troppo e da troppo

Inizio a rendermi conto che la gente di Napoli questa soddisfazione l’aspetta da troppo tempo, troppo di cuore, troppo di pancia, troppo di testa: troppo destino, troppi fantasmi, troppa mitologia maradoniana nella capa per fermarsi adesso. Troppa anticipazione ingrossa il cuore e il desiderio fa soffrire. Hanno goduto, hanno sofferto, hanno goduto anche di soffrire. Il risultato di oggi non è stato solo voluto, è stato pianificato: il sindaco Manfredi ha ottenuto il posticipo della partita che si sarebbe dovuta giocare ieri, dice per organizzare meglio la festa – questo dopo un braccio di ferro durato mesi con De Laurentiis e i gruppi ultras per intestarsi la vittoria e gestire il post partita.

Per molti tifosi normali questa smania di organizzare è inutile, serve solo all’amministrazione per mettersi in mostra. E incattivisce anche la rivalità già feroce con la squadra ospite – al ritornello di “chi non salta pesciaiolo è” -: spostare la partita è dare per scontato che l’avversario si faccia da parte senza combattere. Questa arroganza non è un buon segno, e magari è anche per questo che si segue il gioco in un clima teso e quasi rabbioso. Le sensazioni cattive si concretizzano a dieci minuti dalla fine, quando Dia segna la rete del pareggio. E per il Napoli non c’è più niente da fare.

Il crollo di tensione collettivo di migliaia di persone

Non so se vi è mai successo di trovarvi al centro esatto di un crollo di tensione collettivo di migliaia di persone: è un’esperienza interessante. È come se una mano togliesse il tappo. In pochi minuti dal fischio finale l’immensa folla è smarrita, si disperde; i miei nuovi amici rifiutano gentilmente l’offerta di una cosa da bere, accolgono gli incoraggiamenti di rito – «sarà per la prossima volta, è solo questione di tempo». Che si fa adesso? Come si sfoga la delusione? Io mi consolo in pasticceria con quattro “nuvolette” alla panna.

Poi mi incammino senza meta, vagando tra il centro storico, via Toledo, il porto, dove i napoletani sciamano in azzurro a centinaia, lievemente storditi ma ancora gonfi di voglia di far festa. Infatti dei capannelli si formano a dispetto di tutto, e si fa comunque “burdell”, casino. È la verità: la vittoria è solo rimandata, la festa è solo prolungata. E questo godere e soffrire, soffrire di godere e godere di soffrire, di cui i napoletani sono maestri, non si ferma. La delusione però si percepisce, i vietcong non hanno preso Saigon, comincia addirittura a piovere. A me non resta che cambiare clima, andandomene a Procida. Ma questa è un’altra storia.

Napoli campione e la festa per cui vale la pena di rischiare la pelle

Post-scriptum: come è andata a finire lo sappiamo tutti, all’SSC Napoli c’è voluta solo una manciata di giorni ancora per diventare campione d’Italia. La festa c’è stata, e probabilmente continua anche adesso, mentre sto scrivendo questo articolo; anche se io purtroppo ho dovuto accontentarmi di partecipare da lontano. Ho visto napoletani sparsi per tutta l’Italia suonare i putipù, le vuvuzelas, i clacson, sporgersi dai finestrini delle auto in corsa, accendere fumogeni, botti, tricchetracche. Del resto, vale la pena ripeterlo ancora, se c’è una cosa che i napoletani possono tranquillamente insegnare a tutto il mondo è l’arte di godere, di soffrire, di vivere il lutto e la festa. E non è vera festa se non si rischia la pelle almeno un po’.

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