Scudi umani a Prizen

Di Gian Micalessin
12 Maggio 1999
Un’intera città prima svuotata e poi di nuovo ripopolata a forza dalla polizia serba. Testimonianze di inaudite barbarie raccolte dal nostro inviato e confermate da più fonti. C’è anche il nome di chi ha ordinato le epurazioni. Si chiama Milos Shekic. E potrebbe avere i giorni contati

La striscia di terra diserbata precipita dalle vette. Solca le creste. Fende i declini verdeggianti. Si arresta davanti alla bandiera rossa e all’aquila nera. La sbarra si alza. La fiumana taglia il confine. Si ferma. Riposa. Riprende. Prima solo uomini. Poi solo donne. Un giorno trattori, un altro auto da città. Un giorno gente di Prizen, un giorno di Malishvo. Passano i contadini. D’un tratto arrivano i cittadini. A migliaia. Bambini con zainetti in spalla. Volti occhialuti di professori. Donne che erano segretarie, maestre, impiegate. Raccogli le loro voci. Loro non sanno. O non capisci. Per tre giorni arrivano solo abitanti di Prizen. Poi tutto cambia: “Rimandano indietro tutti quelli di Prizen” – grida un uomo. Qual è la logica dell’epurazione etnica? Chi è il demiurgo che la comanda? Per cinque giorni raccogli le voci di frontiera. Brandelli di verità in lunghi pianti di disperazione. Lentamente il puzzle prende forma. Ymer Berisha, un ex professore di Biologia, per un mese è stato il coordinatore della Comunità Albanese di un quartiere di Prizen. La sua è una voce resuscitata dal ghetto di Varsavia. “Andavo di cantina in cantina. I miei uomini si erano nascosti. Avevamo deciso che non bisognava lasciare la città. Bisognava resistere all’epurazione. Per un mese la città è diventata un deserto. Noi dei topi. Di notte risalivamo negli appartamenti. Mangiavamo e tornavamo di sotto. Di giorno la polizia ci cercava. Tutti gli uomini tra i diciotto e i cinquanta sono sulla lista”. Poi finisce al palazzetto dello sport. “Ci sono sempre almeno duecento-trecento prigionieri lì dentro. Attendono di andare a scavare le trincee sul confine”. Gazim Malazogu, un ex architetto, è riuscito a fuggire dalla deportazione. “Al palazzetto eravamo duecentocinquanta. Ogni giorno sceglievano gli uomini di cui avevano bisogno e li mandavano a scavare. Io conoscevo un dottore serbo. Mi ha fatto uscire con un permesso. Quando erano venuti a prendermi a casa un mio vicino, un ragazzo, non voleva venire. Loro gli hanno sparato in testa”. Il professore Ymer Berisha dice di conoscere il nome del demiurgo di tutto ciò. “Si chiama Milos Shekic. È il comandante delle forze speciali di polizia. Lui decide tutto. Lui decide le deportazioni. Lui ha deciso di svuotare la città. Lui adesso ha bloccato l’esodo. Vuole riportare in città gli sfollati. Ha bisogno di scudi umani”. Lo svuotamento incomincia all’alba del 29 aprile. “I soldati arrivano alle cinque e ci dicono di lasciare le case. Dicono che ne hanno bisogno. Forse dicono la verità – spiega Azred Leka, trent’anni – la Nato ha bombardato per più di venti giorni. La caserma di Voivoda Stefan, vicino a dove vivevo, è stata colpita molte volte. I bombardamenti sono molto precisi, ma la notte del 28 hanno distrutto cinque case civili in un’area di zingari. Cinque rom sono morti”. La deportazione è ordinata. Scientifica. “Iniziano quartiere per quartiere. Circondano cinque o sei blocchi di appartamenti e ci fanno salire sugli autobus – racconta Azred – non c’è molta violenza, ma tanta fretta”. I motivi della fretta li spiega Gani Sylai, portavoce dell’UCK qui nel Nord dell’Albania. “Siamo riusciti ad infiltrare i nostri uomini nella regione. I Serbi ora hanno bisogno di muovere le loro truppe in altre posizioni e usano le case dei civili come nascondiglio. Inoltre vogliono toglierci l’appoggio della popolazione”. La presenza dell’UCK è confermata dal professore Berisha. “Sono sulle montagne intorno ai villaggi di Koresh e Kabash. La polizia da una settimana non mette più piede lì”. L’ultima fase dell’epurazione scientifico-militare di Prizen si gioca in queste ore. Milos Shekic ha sbagliato i conti. Richiama dal confine le colonne dei cittadini fatti sfollare. “Ha bisogno di più scudi umani – racconta il professore Ymer – chi viene portato indietro viene messo nei palazzi e nelle case in cui sono state nascoste unità militari, mitragliatrici anti-aeree e carri armati. I villaggi attorno sono stati bruciati. La città è diventata un’enorme caserma circondata da esseri umani”. Protetto da schiavi e soldati il comandante Milos Shekic si prepara alla sua ultima battaglia.

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