Se indossare il velo sia lo stesso che portare un cappello da cowboy

Nessuno può sospettarmi di una sia pur minima forma di antiamericanismo. Penso quindi di poter dire che Erica Jong (leader storica del femminismo americano e autrice del best seller Paura di volare) esagera davvero quando afferma che il velo islamico è un problema europeo e non americano – a suo avviso l’hijab sarebbe soltanto un segno di ribellione delle teenagers – perché la grandezza dell’America è di essere una società multiculturale mentre la cultura europea è intrisa di razzismo. Questo sarebbe visibile persino nell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci, in cui Giuda «è l’unico apostolo con la pelle scura: il look mediorientale già da allora era sinonimo di perfidia». Sono insulsaggini sesquipedali: per quanto “razzista”, Leonardo non era ignorante come Erica Jong, al punto da non sapere che Gesù e tutti gli apostoli erano mediorientali. Ed è ridicolo voler far credere che in America il razzismo non abbia mai messo piede. È un caso che l’unità federale del paese si sia fatta sulle macerie di una guerra di secessione motivata dalla questione dello schiavismo? Anche di recente, grandi città come Los Angeles hanno dovuto affrontare sommosse motivate da problemi razziali. È strano che proprio una “progressista” multiculturalista, nemica manco a dirlo dei conflitti di civiltà, tiri fuori un discorso di superiorità culturale.
«In una società veramente libera e multiculturale – dice Erica Jong – chiunque deve avere il diritto di indossare il velo, la kippà ebraica, il turbante dei sikh e di altre religioni», eccetera. Aggiungiamo noi: e perché non una divisa nazista o sovietica o un fez repubblichino? In termini di stretto egualitarismo, non si vede perché discriminare. Eppure, sarà difficile anche per Erica Jong ammettere che portare una fascia al braccio con una svastica sia la stessa cosa che indossare un cappello da cowboy.
Quel che inquina questi discorsi e rende la questione una matassa inestricabile è proprio l’ottuso egualitarismo multiculturalista. Proviamo a usare la ragione e a distinguere. Quel che conta è se dietro un simbolo vi sia un progetto efferato oppure no, se un copricapo religioso è vissuto soltanto come un atto di devozione oppure è la bandiera di un intento di sopraffazione. Un turbante sikh non trasmette messaggi negativi perché non esiste un progetto indù di dominazione del mondo. Chi esibisca una svastica indica la volontà di realizzare una nuova Auschwitz. Soltanto un ipocrita può negare che portare il velo islamico oggi in Occidente, e nel pieno di un attacco globale dell’integralismo islamico, sia simbolo di un progetto esplicito: come minimo mantenere una separatezza rispetto alla società occidentale “corrotta”, indicare l’estraneità alle sue leggi e l’obbedienza alla sharia; e, molto spesso, addirittura la volontà di affermare il dominio dell’islam. Inoltre, non tutto si equivale: la circoncisione (praticata da ebrei, musulmani e molti americani) non può essere messa sullo stesso piano di una pratica come l’infibulazione, volta ad affermare la subordinazione della donna.
È un discorso complesso ma il metodo è chiaro: distinguere. Altro che egualitarismo multiculturalista! E, per noi, un criterio di distinzione è dato dai princìpi etici e giuridici che garantiscono i diritti della persona e il rispetto delle donne, e che sono il frutto di secoli di travagliate elaborazioni nella cultura occidentale, europea e americana.

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