
La preghiera del mattino
Se “senza Draghi al governo” siamo spacciati, allora siamo spacciati comunque

Su Formiche Corrado Ocone scrive che «le domande da porsi sono se, da parte di Renzi, sia tattica o strategia, se il fine che si vuol raggiungere sia contingente (e cioè legato all’elezione del capo dello Stato) o strutturale». Ho molta ammirazione per Ocone ma sperare che Renzi, quel furetto imprendibile e imprevedibile, faccia qualcosa di strutturale mi sembra complicato.
Su Startmag Francesco Damato ricorda che «il garante del M5s – ha scritto o descritto Simone Canettieri sul Foglio non inventandosi nulla – vuole che la legislatura arrivi a scadenza, anche perché sa che le elezioni anticipate si porterebbero appresso nuovi scontri con l’ex premier Giuseppe Conte, messo forse imprudentemente a capo del movimento». È una bella vendetta della storia vedere uno dei leader del movimento che ha abolito un diritto acquisito come i vitalizi per gli ex parlamentari, e ha fatto ridurre – grazie a un irresistibile qualunquisticheggiare – il numero dei parlamentari, combattere contro le elezioni anticipate perché favoriscono Giuseppe Conte.
Su Dagospia viene riportata questa frase di Enrico Letta: «Nessun capo politico è mai stato presidente della Repubblica. Sono state tutte figure istituzionali». Che cosa ha Lettino? Non sta bene? Come fa a dimenticarsi di Antonio Segni, uno dei capi storici del doroteismo Dc, o di Giuseppe Saragat, leader non di un’istituzione ma della socialdemocrazia italiana?
Su Atlantico quotidiano Matteo Bellini scrive: «Essere liberali non significa diventare automaticamente europeisti dagli occhi bendati». Perfetto, ma la contestazione della burocratizzazione bruxellese in atto e dell’affermarsi di una ideologia della political correctness, disgregante e illiberale, è efficace se concreta, voler comparare l’Unione Europea a una nuova Unione Sovietica finisce per non convincere nessuno: le critiche per essere credibili devono essere realistiche.
Sulla Zuppa di Porro Antonio Pilati scrive: «Quando l’esistenza individuale perde l’interazione vissuta – insieme a strati di esperienza – e ha come aggancio collettivo solo l’agire disincarnato nel mondo social, è facilmente plasmata dalla paura». Insomma il social ti rende asocial.
Su l’Occidentale si riporta questa frase di Mario Draghi: «“L’Italia pone di nuovo questo tema con assoluta determinazione, anche a seguito del numero elevato di arrivi che ci sono stati in questi mesi”, dice il premier Mario Draghi, riferendo in aula alla Camera. Da luglio, aggiunge, “gli sbarchi mensili non sono mai scesi sotto la quota di 6.900, e hanno raggiunto un picco di oltre 10 mila ad agosto. Al 14 dicembre, le persone sbarcate in Italia quest’anno erano 63.062. Nel 2019 sono state 11.097, e nel 2020 sono state 32.919. Al tempo stesso, con l’introduzione delle restrizioni pandemiche, le già sporadiche re-distribuzioni tra paesi europei dei migranti sbarcati in Italia si sono interrotte”». Ma che fa Super Mario? Salvineggia?
Sul Sussidiario Antonio Fanna scrive: «La maggioranza Ursula che tanto piace a Bruxelles potrebbe dunque evolvere nella maggioranza Giuliano, con Berlusconi ancora al centro dei giochi. E Salvini condannato a restare ai margini assieme a Giorgia Meloni». Il Sussidiario legge la rinuncia di David Sassoli a mantenere la sua candidatura a presidente del Parlamento europeo come un rivitalizzazione della “maggioranza Ursula”, un tentativo che potrebbe avere effetti anche in Italia portando Giuliano Amato al Quirinale con una maggioranza da Silvio Berlusconi a Enrico Letta e Giuseppe Conte. È giusto inquadrare in un contesto più ampio le vicende italiane, ma l’analisi va meglio articolata. Chi ha affossato Sassoli non è stata la nostalgia per “Ursula” bensì un disperato bisogno di protezione di un sempre più debole Emmanuel Macron, nonché la volontà di affermazione dei Verdi tedeschi che non votarono “Ursula”. Intanto i popolari (dagli spagnoli a Valérie Pécresse, nonché i bavaresi) si stanno spostando sempre più a destra. Nella maionese impazzita della politica italiana può succedere di tutto, però le influenze internazionali sono ben lungi dall’essere unilateralmente finalizzate.
Su Strisciarossa Oreste Pivetta scrive: «I due leader sindacali potrebbero aver del tutto torto. Però colpiscono, accanto ai severi rimproveri, il silenzio di molti, a sinistra o tra quel che resta della sinistra, l’incapacità di cogliere il valore della critica e di una riflessione che non annega nel gran fiume del consenso». La morte di una vera discussione pubblica di scelte e opinioni ha guidato e fiancheggiato la disgregazione politico-sociale dell’Italia.
Su Fanpage Annalisa Cangemi scrive che «la Corte di giustizia dell’Unione Europea ha accolto il ricorso di due donne, sposate in Spagna nel 2018 e madri di una bambina, nata nel 2019: la sentenza, che parte dal caso sollevato da un tribunale bulgaro, stabilisce che tutti gli Stati membri devono accettare che un bambino abbia madri o padri dello stesso sesso». Ma veramente si crede che si possano affermare nuovi diritti senza uno Stato di diritto, senza una Costituzione, senza una definita forma di sovranità che accompagni e legittimi le scelte giudiziarie? Come il barone di Munchausen che si sollevava afferrandosi per i capelli e tirandosi così su?
Su lavoce.info Lucia Valente, a proposito della recente direttiva europea sui rider, scrive: «Meglio sarebbe stato introdurre a livello di Unione un tertium genus tra quelli di lavoratore subordinato e di lavoratore autonomo, per riempire in modo adeguato il vuoto creato dalla rapida trasformazione digitale del tessuto produttivo». Parlamento e Consiglio europeo hanno fatto un primo passo per dare una cornice di diritto a nuove forme di lavoro. In linea di massima la scelta di dare elementi di cornice piuttosto che regolamenti superprescrittivi è corretta: la forma di funzionamento più ragionevole di un’Unione senza Costituzione è quella di puntare soprattutto sulla sussidiarietà degli Stati membri nelle scelte più concrete. Infine va notato come le condizioni di lavoro non migliorano mai se accanto alle scelte legislative non c’è un soggetto attivo, cioè sindacale, che interviene organizzando i lavoratori interessati.
Sugli Stati generali considerazioni di squisito buon senso da parte di Jacopo Tondelli: «Davvero siamo disposti a credere che la democrazia italiana, nella sua manifestazione parlamentare e nella sua naturale dimensione popolare ed elettorale, non è in grado di proseguire un percorso già incardinato di relazione con l’Unione Europea per un enorme progetto di finanziamento e di sostanziale ripensamento delle politiche nazionali ed europee? Davvero “senza Draghi a Palazzo Chigi” non saremmo capaci? Perché se così fosse, beh, tanto varrebbe dichiarare fallimento come nazione e, soprattutto e anzitutto, come democrazia. Posta in questi termini la domanda diventerebbe difficilmente aggirabile anche per chi vuole incatenare Draghi dov’è per un altro anno. Anche perché – la scadenza sparisce sempre dai discorsi di chi lo vuole lì – al più tardi nel 2023 bisogna tornare a votare. La fine della legislatura – almeno quella – non potrà essere definita come un’inutile avventura nel mare dell’ignoto».
Su Il Post si riporta un’analisi di Vincenzo Coraggio sullo stato delle province che dovevano scomparire ma sono ancora lì e tra l’altro si scrive: «La riforma Delrio era stata pensata come una legge transitoria in attesa del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, promosso dal governo guidato da Matteo Renzi per chiedere tra le altre cose di eliminare la parola “province” dalla Costituzione: un passaggio formale e obbligato per il compimento della riforma, che però non si verificò per la vittoria dei “no”. La mancata approvazione della proposta lasciò quindi incompleta la riorganizzazione che avrebbe dovuto perfezionarsi con una nuova riforma per definire meglio le competenze delle province depotenziate. Rimase soltanto la legge Delrio che, insieme ai drastici tagli ai trasferimenti decisi dai governi, causò notevoli difficoltà nella gestione di settori importanti rimasti di competenza delle province, come l’edilizia scolastica, l’ambiente, i trasporti, la manutenzione delle strade, e che soprattutto creò una certa confusione su chi avesse responsabilità su cosa. Le conseguenze di quelle scelte, dicono politici e addetti ai lavori, sono molto evidenti ancora oggi e hanno effetti negativi anche sulla programmazione del Pnrr, il piano nazionale di ripresa e resilienza che organizzerà gli investimenti nell’ambito del Recovery Fund europeo». Ecco un’altra cronaca dell’ordinaria disgregazione politico-istituzionale in corso oggi in Italia.
Su Open si riportano alcune frasi di Emmanuel Macron: «”I gilet jaunes sono la Francia che si sente invisibile”. Con queste parole il presidente francese Emmanuel Macron riconosce di aver commesso degli “errori” nel misurarsi con le grandi proteste del movimento dei gilet gialli, errori che possono aver contribuito ad alimentare il malcontento». Si avverte quasi un’arietta da bonjour Pécresse.
Foto Ansa
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