Se tutto è relativo, la Befana e Paperino sono veri quanto le teorie di Giorello

È inevitabile che scientismo e relativismo entrino in rotta di collisione. Come è possibile asserire al contempo che la scienza è l’unica forma di conoscenza razionale e degna di fiducia, e che tutte le asserzioni e le teorie si equivalgono, sono soltanto “opinioni” fra cui non è possibile scegliere in base ad alcun criterio oggettivo? Osserva il filosofo Maurizio Ferraris che, se accettassimo l’idea che «la visione scientifica del mondo è una mitologia occidentale non diversa, in linea di principio, dai culti della dea Kali», si spalancherebbero le porte a padre Pio e al miracolo di san Gennaro. Se si sostiene che «nessuna legge di natura è certa al cento per cento, e soprattutto che le leggi sono costrutti degli scienziati, allora si spiana la via alla tesi secondo cui nulla vieta di credere nei miracoli». Questi ragionamenti sono commentati da Giulio Giorello che, preoccupato di difendere il relativismo, imputa loro di essere «sottilmente fallaci» in quanto, ricorda, nessuna legge di natura è certa al cento per cento, ma gode soltanto di una più o meno alta percentuale di affidabilità. E ha perfettamente ragione. La leggenda metropolitana secondo cui affermare che la scienza persegua una conoscenza “vera” implica affermare che le nostre conoscenze sono verità assolute e definitive, è una sciocchezza che neppure i più ottusi positivisti hanno mai osato proporre. Persino il grande matematico Laplace, comunemente considerato come l’assertore più radicale dell’oggettivismo e del determinismo scientifico, aveva già detto che le nostre conoscenze sono «soltanto probabili» e che si accrescono in un processo incessante verso la verità dalla quale tuttavia resteremo sempre «infinitamente lontani». Ora, Giorello parla di «miglioramento autocritico e incessante delle nostre ipotesi in base alle quali pensiamo e agiamo». Benvenuto tra i critici del relativismo! Vediamo che egli aderisce persino all’idea del progresso della conoscenza. E allora tanto vale dismettere ufficialmente la leggenda del relativismo come essenza del metodo scientifico.
Difatti, il relativismo non si riduce certo all’ovvietà secondo cui sulla stessa cosa si possono esprimere opinioni diverse. Esso è l’ideologia secondo cui le leggi scientifiche sono meri costrutti culturali. La fisica del Duecento e quella del Novecento si equivalgono perché non dicono alcuna “verità” circa il mondo reale, sono mere espressioni di condizioni sociologiche e culturali diverse. Anche Thomas Kuhn, che pure è uno dei padri della sociologia della scienza, si è presto reso conto dei rischi del relativismo. «Non sono relativista – scriveva una decina di anni fa – perché non credo che tutte le conclusioni si equivalgano. Penso che sia sempre possibile pervenire, su basi oggettive, a una conclusione preferibile alle altre. (.) Respingo fermamente il relativismo. (.) Sono convinto che si tratti di un errore dalle conseguenze pericolose».
Resta da capire come si possa seriamente mettere in unico calderone Dio, la Befana e Paperino e predicare che lo scetticismo scientifico sia il vero antidoto ai personaggi immaginari. Ma, anche limitandosi a questo secondo aspetto: perché mai la fantasia sarebbe una cosa talmente perversa da avere bisogno di un “antidoto” e la scienza dovrebbe svolgere questo triste compito? Osservava un mio amico: non si vede perché, per non perdere la rispettabilità, dovrei vietarmi di far colazione leggendo un fumetto anziché un trattato di geometria differenziale.

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