Sean, che chiedeva al Canada di vivere ed è stato aiutato a morire

Di Caterina Giojelli
29 Agosto 2019
Per anni un padre malato di Sla ha combattuto contro il servizio sanitario per ricevere assistenza a casa, con suo figlio e i suoi cari. Ma allo Stato costava meno abbandonarlo al suicidio assistito

Alla fine non l’ha ammazzato la Sla ma il Maid: Medical Assistance in Dying, si chiama così il servizio medico offerto in Canada a «pazienti idonei a soddisfare il loro desiderio di porre fine alla loro sofferenza». Eppure Sean Tagert non voleva essere aiutato a morire. Sean Tagert, 41 anni, un figlio di 11 e la diagnosi di una malattia terribile piombata tra capo e collo nel 2013, voleva disperatamente un aiuto a vivere.

UN MALATO È UN COSTO INSOSTENIBILE

Lo voleva così tanto che per anni ha lottato come un leone contro il Vancouver Coastal Health che gli aveva negato piena assistenza sanitaria a domicilio, cioè 24 ore su 24, 7 giorni su 7, di cui Tagert aveva bisogno. Coprire dalle 15 alle 20 ore al giorno: questo era il massimo che poteva fare il servizio sanitario per lui. Il resto delle ore e delle cure se lo sarebbe dovuto pagare da solo, ma quel “resto” per Tagert, che dall’ottobre 2017, in seguito a un arresto cardiaco, viveva attaccato a un ventilatore a tempo pieno e necessitava di cure tracheostomiche continue, significava la cifra impossibile di 7.905 dollari al mese, oltre 260 dollari al giorno.

UNA CASA PER ESSERE UN PADRE

Il ragazzo (aveva solo 36 anni quando gli fu diagnosticata la Sla nel marzo del 2013) aveva già dato fondo a tutti i suoi risparmi e a quelli della sua famiglia e degli amici per modificare la sua abitazione di Powell River, istallare elevatori per la sedia a rotelle, entrare e uscire da una doccia speciale. Aveva anche acquistato un EyeWriter, un dispositivo che consente a una persona di comunicare con gli occhi e attraverso la voce generata da un computer, per non perdere la relazione con parenti e terapisti. E grazie all’aiuto di donazioni raccolte online si era procurato un costosissimo macchinario da 16 mila dollari per l’aspirazione della saliva che gli impediva di soffocare. Quella casa per lui era tutto perché in quella casa, dopo aver perso la capacità di camminare, respirare da solo, nutrirsi e parlare, poteva ancora essere il padre di Aidan, il figlio amatissimo di cui condivideva la custodia con la ex moglie. Un bambino che tutte le settimane si trasferiva dal papà, «lui è tutto per me. Non sarei ancora qui se non fosse stato per lui».

«TRASFERIRMI È CONDANNARMI A MORTE»

Per questo, quando il Vancouver Coastal Health aveva deciso di “barattare” la copertura parziale delle ore di assistenza con un ricovero permanente al George Pearson Center di Vancouver (una struttura residenziale per pazienti che non possono più vivere in sicurezza a casa propria) situata a quasi cinque ore di viaggio dalla sua abitazione, Tagert aveva energicamente rifiutato. Non solo secondo il suo medico, il dottor Stephen Burns, il ragazzo avrebbe perso la fondamentale relazione medico paziente in una struttura così grande e con personale che cambiava turno in continuazione. Ma avrebbe perso tutto quello che nella malattia era riuscito a costruirsi da sé, la capacità di «trovare e riconoscere ogni giorno un significato e la qualità della sua vita». In altre parole Tagert avrebbe perso gli affetti, la comunità di Powell River che gli era sempre stata accanto, il figlio Aiden e i suoi cari, «le persone hanno bisogno di essere curate, non immagazzinate», ha più volte insistito la madre, che la dimostrazione che la miglior cura fosse un affetto e una compagnia stabile tra le mura di casa l’aveva avuta il giorno in cui il suo ragazzo aveva superato la soglia dei quarant’anni. «Sono Sean, sono un padre, sono di Powell River», andava ripetendo il canadese, «trasferirmi sarebbe una condanna a morte».

«BUTTATEMI NELLA SPAZZATURA»

Il 19 luglio, Tagert, stremato dalla sordità del Canada alla sua richiesta di terapie, assistenza a cui la mamma da sola non riesce più a fare fronte, scrive un lungo post su Facebook: «L’unica cosa che mi resta da lasciare è una morte significativa, quindi trasmetterò la procedura in diretta per protestare contro l’incapacità del governo di sostenere i canadesi gravemente disabili. Ho aggiornato le mie ultime volontà: nessun funerale e nessuna cerimonia. Buttatemi nella spazzatura come vogliono loro. Ho cercato di essere una brava persona per tutta la vita. Ovviamente ho fallito».

Il 25 luglio si presentano a casa sua due funzionari del sistema sanitario: quando si accorgono che Tagert stava registrando la conversazione se ne sono andati, non prima di aver spiegato alla madre che lo scopo della visita era discutere un ulteriore taglio dei fondi o delle ore di assistenza garantita al figlio. «Quindi ho presentato ufficialmente la documentazione per ricevere la morte assistita, con avvocati e medici, tutto in ordine. È passato più di un mese da quando ho presentato il mio appello al dipartimento per l’assistenza ai pazienti della Vancouver Coastal Health. Non hanno nemmeno risposto». Tagert muore il 6 agosto. Nel paese dove ogni cittadino ha il diritto di morire ma non di vivere assistito dal medico. E dove l’aiuto al suicidio è interamente finanziato dal sistema sanitario.

sla

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