Sfatiamo un po’ di miti sugli “ogm Frankenstein”

Di Gianluca Salmaso
01 Luglio 2015
«Parlare di questi organismi è fondamentale proprio perché ad Expo non se ne parla o se ne parla a sproposito». Intervista al professor Piero Morandini

fidenato-dalla-libera-ogmGli ogm buoni esistono, e sono tutti intorno a noi. Riempiono gli scaffali dei supermercati, affollano i frigoriferi, imbandiscono le nostre tavole e lo fanno da sempre. Di per sé già questa è una notizia per chi non ha mai riflettuto sul fatto che tutte le piante da noi coltivate e mangiate sono frutto di secoli di selezione, incroci e mutazioni tanto che, se domattina smettessimo di seminarle, queste si estinguerebbero.
Per capire meglio cosa sono veramente gli ogm, se siano o meno il “cibo di Frankenstein” e che rischi si corrano nel coltivarli e consumarli, abbiamo parlato con il professor Piero Morandini, docente presso il dipartimento di bio-scienze dell’Università di Milano.

Morandini, lei ha organizzato a Milano martedì 30 giugno un convegno dal titolo “Noi e gli ogm”. Un convegno che tratta di alimentazione, e che però non si è svolto “dentro” l’Expo. Perché è importante parlare di ogm anche in luce di Expo?
Innanzitutto il termine ogm non è il più corretto, perché vuol dire tutto e niente. Meglio sarebbe parlare di organismi geneticamente ingegnerizzati, o transgenici. Parlare di questi organismi è fondamentale proprio perché ad Expo non se ne parla o se ne parla a sproposito, forse perché è più un’esposizione sul cibo che su come produrlo.

Si fa un gran parlare di frutta e verdura rese sterili dal processo di modifica, o di ingegnerizzazione.
Sfatiamo un mito: non si creano delle piante sterili per il gusto di farlo. Anni fa un’azienda ci aveva provato ma il suo prodotto non è mai andato sul mercato. Le piante da sempre non si riproducono solo con metodi “naturali”, pensiamo alle talee che tutti gli appassionati di giardinaggio conoscono. La sterilità in quanto tale è un fattore relativo, quindi, e nasce soprattutto da caratteristiche gradite al consumatore. Chi ha visto com’è una banana naturale, l’ha riconosciuta a stento: piccola, tozza e piena di semi, tutt’altra cosa rispetto a quelle che troviamo al supermercato. Proprio l’assenza di semi rende un frutto più appetibile, pensiamo all’uva o agli agrumi.

Una prospettiva decisamente ottimista.
Sono ottimista, ma non a scatola chiusa. Ad esempio non approverei un riso tollerante agli erbicidi che potesse incrociare i propri geni con qualche infestante, un fenomeno che è noto come “fuga del transgene”.

Quindi qualche rischio, insomma, permane e il fatto che ci siano dei controlli serrati non può che giovare.
Il problema non sono i controlli in sé, ma la loro sproporzione. Pensiamo al golden rice, il riso a cui è stata aggiunta la vitamina A e che potrebbe salvare migliaia di vite: giace nei cassetti dei ricercatori dal 1999, sommerso dalle scartoffie. Tutto ciò, manco a dirlo, non avviene (o avviene in misura nettamente minore) con prodotti potenzialmente più rischiosi come quelli ottenuti da mutagenesi.

Mutagenesi e ingegnerizzazione dei geni. Che differenza c’è?
La mutagenesi è un processo a tappeto in cui si cambia il dna in modo permanente e generale, senza sapere di preciso cosa si va a toccare. L’ingegnerizzazione è un processo più mirato in cui selezioni prima, dove e in quale misura intervenire. Una garanzia ex ante di cui la normativa non tiene assolutamente conto, discriminando la tecnologia.

Perché c’è tanta avversione per questo tipo di ricerca scientifica e per i suoi risultati?
A volte più che di avversione temo si tratti di un’aggressione ideologica. Dietro ci possono essere numerosi fattori, come il fatto che qualcuno guadagni dalla paura o dal fatto che altri, per motivi dei più vari, considerino la natura come un’entità immutabile ed intoccabile.

Forse perché le cattive notizie vendono meno delle buone.
Certo, e noi magari non siamo stati capaci di spiegarci. Alla fine dei conti la stragrande maggioranza degli scienziati del settore sostiene le stesse cose che abbiamo detto noi al convegno, e cioè che ci vogliono più ricerca e meno paura e burocrazia, ma veniamo silenziati da una minoranza spesso impreparata e chiassosa. L’importante è che sia passato e passi il messaggio di fondo, soprattutto negli insegnanti che poi lo spiegheranno ai loro studenti. Sarebbe un piccolo, grande passo avanti.

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6 commenti

  1. Fabio

    Provate a prendere dei semi di mais da vari campi, seminateli e vedete quanti ne crescono! Io ho provato con 10 tipi e la risposta è 0! Ok alla ricerca, ma la sterilità non credo sia un caso.

  2. angelo

    mettiamo OBBLIGATORIO indicare che un determinato prodotto sia GENETICAMENTE MODIFICATO e lasciamo libera la gente di scegliere.

    1. Mappo

      Giusto Angelo, così la gente potrebbe scegliere (sempre che non fosse stata prima terrorizzata dalle campagne mediatiche dei talebani anti OGM) Io nel mio piccolo per ripicca mi rifiuto di comprare prodotti che sulla confezione si vantino di essere privi di OGM, come del resto mi rifiuto di comprare prodotti che si vantino di essere bio, eco o che appartengano alla filiera del commercio equo e solidale

  3. Giannino Stoppani

    Curioso constatare che coloro che sostengono una posizione spesso più che prudenziale verso gli ogm sono gli stessi che invece sono pronti ad accettare di tutto di più sul piano antropologico.
    Sarebbe d’uopo, a mio modesto avviso, che non si verificasse pure il caso contrario.
    Vabbè che, come diceva Oscar Wilde, la coerenza è l’ultimo rifugio delle persone prive d’immaginazione…

  4. Fabio G

    Personalmente ho poca fiducia sulla reale utilità delle piante di questo tipo.
    Per me c’è dietro un grande giro di soldi per fare investimenti e ricerca ,
    promettendo risultati favolosi e soluzione di chissà quali problemi.
    (un po come quando spacciavano le cellule staminali embrionali come soluzione di tutti i mali).

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