L’orrore della Shoah attraverso gli occhi di William Congdon: «Avremmo potuto fare lo stesso»

In mostra a Milano ritratti e riflessioni firmati dal grande artista americano dopo l'ingresso nel campo di sterminio Bergen Belsen: «Le colpe della Germania sono anche le nostre»

La mostra In the Death of One di William Congdon al Memoriale della Shoah al Binario 21 della Stazione Centrale di Milano Milano (foto Ansa)

«Dire che il campo di Bergen Belsen è stato un fenomeno tedesco è fuori luogo. Certamente lo è stato, ma si è trattato di una cosa tanto enorme che non può essere interpretata così superficialmente. Il fatto che degli esseri umani abbiano potuto fare questo ad altri esseri umani è più importante. Proprio perché rivela che voi ed io, che pure siamo esseri umani, avremmo potuto fare lo stesso, la maggior parte di noi preferisce la rassicurante reazione di confinare la cosa ai tedeschi. Bergen Belsen può essere accettato solo nei termini del rapporto di ciascuno di noi con l’esistenza». Generazioni di cattolici italiani sentono riecheggiare in queste parole l’attacco dell’ultima strofa di una celeberrima canzone di Claudio Chieffo scritta nel 1967, La nuova Auschwitz; quella che fa: «Non è difficile essere come loro, non è difficile essere come loro…».

Le parole che universalizzano la colpa dei campi di sterminio tedeschi risalivano a vent’anni prima, subito dopo la fine della guerra, e non le aveva buttate giù uno scrittore o un filosofo che viveva isolato dal resto del mondo; ma un uomo e un artista che era stato fra i primi a entrare in un campo di sterminio nazista e a tentare di salvare le vite delle migliaia di moribondi che vi erano stati stipati. Quell’uomo era William Congdon, che di lì a poco sarebbe diventato un rinomato esponente dell’Action painting newyorkese e, più genericamente, dell’espressionismo astratto.

Un orrore al di là della comprensione immediata

Oggi le pagine di diario e i disegni a matita su fogli di notes che produsse nel mese di maggio del 1945, riuniti nel libro inedito In the Death of One, sono esposti al Memoriale della Shoah di Milano in una mostra che si è aperta il 14 ottobre ed è (salvo prolungamenti) destinata a chiudersi il 31 gennaio. A fare da guida all’esposizione il volumetto di Stefano Bruno Galli, attuale assessore regionale lombardo all’Autonomia e cultura, William Congdon nell’inferno di Bergen Belsen – In the Death of One, di fatto un estratto del libro che l’autore, che è anche docente di Storia delle dottrine politiche alla Statale di Milano, pubblicò nel 1996 col titolo Da New York a Bergen Belsen. L’”altra” guerra di William Congdon.

La mostra su William Congdon a Bergen Belsen al Memoriale della Shoah di Milano (foto Ansa)

Profondamente pacifista e antimilitarista, chiamato alle armi nella primavera del 1942 Congdon riesce ad arruolarsi come autista di ambulanze nell’American Field Service, che accompagna le truppe americane sui fronti della Seconda Guerra mondiale. In questa veste partecipa alla campagna d’Africa, poi a quella d’Italia e infine all’occupazione della Germania. Entra nel campo di Bergen Belsen, trovato e liberato dalle truppe britanniche pochi giorni prima, il 2 maggio 1945. Scrive sul suo diario: «Lo spettacolo di morti nelle fosse era talmente al di là di una comprensione immediata che, con un certo spavento, si era costretti a cercare dentro se stessi una reazione adeguata. […] C’erano 60 mila internati a Belsen. C’erano 10 mila morti insepolti. Altri 13 mila sarebbero morti nel giro di sei settimane. Si stimava che gli ospedali creati all’interno delle ex caserme delle SS non avrebbero dimesso i propri pazienti prima del marzo 1946».

«Domani morta»

L’ambulanziere artista sente l’urgenza di strappare moribondi e cadaveri all’anonimato della morte di massa. Con sé ha solo qualche matita, qualche sanguigna (la matita che lascia segni rossastri) e foglietti di notes. Dentro di lui si sta coagulando quell’espressività dolorosa ed esplosiva, quell’addensarsi di materia in forme visionarie che caratterizzerà tutti i suoi quadri dalle prime esposizioni newyorkesi del 1947 fino alla morte nel 1998 (dopo avere vissuto gli ultimi vent’anni nel monastero-cascina della Cascinazza nei pressi di Buccinasco, alle porte di Milano). I disegni sono terribili, lancinanti, una centrifuga di pietas e di orrore. Chi li guarda vi ritrova il corrispettivo delle foto e dei filmati dell’epoca, ma con un di più di dramma universale. Appaiono come gli unici ritratti possibili dei volti e dei corpi degli internati: qualunque altro tipo di rappresentazione sarebbe stato retorico o irrispettoso.

William Congdon, Morgen Tod, ritratto di una donna ebrea in fin di vita nel campo di sterminio di Bergen Belsen, 1945 (foto LombardiaBeniCulturali)

Il più famoso di tutti è quello della donna ebrea ungherese ritratta il giorno prima di morire, intitolato Morgen Tod. «Ma l’incontro più vero», scrive, «l’ho avuto nella baracca n. 42; era ormai svuotata, ma c’era ancora una donna, lasciata come morta. Mi sono seduto vicino a lei. E mi sono messo a disegnarla. E lei lentissimamente si muoveva, con la pelle del dorso che si staccava, ormai incollata al legno. Mi guardò, volle sedersi, comporsi gli stracci che la coprivano a metà e ricomporsi i capelli per posare per me, per farsi “bella”. Ricaduta, mi guardava, e mi disse che era lì dentro da un anno e mezzo, e che aveva perso il marito e tre figli, tutti dentro, era ebrea ungherese. Io le dissi: “Domani verrò a prenderti”, e lei: “No, domani morta” (Morgen Tod). Quando, di nuovo contro gli ordini, andai a prenderla, era morta».

Congdon disegnerà dettagli di cadaveri, ma mai (con una singola eccezione) i cumuli dei filmati che lasciano senza fiato gli spettatori dei cinegiornali: «Agli americani che stanno lontano, piuttosto che l’impersonale e oggettivo cinegiornale, si sarebbe dovuto mostrare un documentario di una giornata nell’esistenza moribonda di un individuo a Belsen, seguendolo magari fin dentro alla morte, e sul carro da morte fino alla fossa. Giacché soltanto in un simbolo talmente unico della sofferenza e dell’ironia sarebbe stato possibile immedesimarsi al punto da far scaturire l’autentica emozione».

Quelle riflessioni rimaste senza editore

Tornato in patria, Congdon continuerà la sua riflessione sul senso del male e sulla responsabilità collettiva. Il libro di Stefano Bruno Galli ripropone alcuni passaggi: «Il mondo è troppo interrelato e gli esseri umani sono troppo simili per prestarci alla comoda menzogna che noi non c’entriamo niente con le colpe della Germania e che da noi tutto questo non sarebbe accaduto. […] Se vogliamo la pace dovremo essere tanto realisti e umili da accettare la nostra colpa come membri fallimentari di una comunità mondiale malata (un genere di colpa diversa solo per grado da quella dei giapponesi o dei tedeschi); e dovremo usare della nostra potenza e del fortunato benessere attuali per aiutare i piccoli e gli sconfitti».

La mostra su William Congdon a Bergen Belsen al Memoriale della Shoah di Milano (foto Ansa)

La conversione al dono non è affatto facile, richiede sacrificio: «Soffrire nel vero senso di rinunciare a ciò che è stato indispensabile, di sollevare il livello di vita di un altro piuttosto che il nostro, dal momento che tale livello di vita è soltanto un mezzo».

Nel clima trionfalista e moralistico dell’America del secondo dopoguerra non ci fu una sola casa editrice disposta a pubblicare In the Death of One. Ha rimediato in larga parte niente meno che il Memoriale della Shoah di Milano, in date comprensive della Giornata della Memoria. Chapeau.

@RodolfoCasadei

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