
SodaStream. Che senso ha boicottare un’azienda che ha uno stabilimento in una colonia israeliana, se dà lavoro a centinaia di palestinesi?

Davvero per migliorare le condizioni del popolo palestinese bisognerebbe boicottare SodaStream e le imprese che, come l’azienda pubblicizzata da Scarlett Johansson e finita nel mirino dei detrattori di Israele, hanno stabilimenti nelle colonie israeliane in Cisgiordania?
Quello che è certo è che SodaStream dà lavoro a centinaia di palestinesi e li paga in base agli standard israeliani. Secondo l’amministratore delegato, Daniel Birnbaum l’azienda delle bibite gassate fatte in casa «è il più grande datore privato di lavoro per i palestinesi in Cisgiordania». E sarebbero soltanto i lavoratori palestinesi a doversi preoccupare, non l’azienda, se la campagna di boicottaggio costringesse SodaStream a lasciare l’insediamento di Mishor Adumim.
PIÙ FABBRICHE COME SODASTREAM. Mentre infuriano le polemiche politiche, «i palestinesi che lavorano nella fabbrica cercano soltanto di vivere in pace», ricorda l’International Business Times. All’indomani della querelle fra Scarlett Johansson e l’ong filo-palestinese Oxfam, il quotidiano web ha intervistato alcuni lavoratori dello stabilimento di SodaStream in Cisgiordania. Come era facile immaginare, i lavoratori palestinesi non sono affatto scontenti del loro lavoro nell’insediamento ebraico. Yasmin Abu Markhia – giovane donna che si descrive come «orgogliosamente palestinese» – ha assicurato di non aver mai assistito a una lite sul posto di lavoro nella fabbrica di SodaStream. Questo perché, ha spiegato all’International Business Times, «siamo pagati bene e il lavoro è buono». Dello stesso parere è anche il palestinese Nabil Basharat. L’intervistato vive in un villaggio vicino a Ramallah e ha lavorato in SodaStream per quattro anni prima di diventare un manager. Al quotidiano online ha spiegato che grazie al suo stipendio è riuscito a mantenere sua moglie e sei bambini «con un tenore di vita elevato secondo gli standard sia palestinesi sia israeliani». All’Internationa Business Times ha detto di comprendere le ragioni di chi boicotta le aziende che hanno una fabbrica nelle colonie israeliane, ma allo stesso tempo chiede loro di «capire che l’azienda dà lavoro ai palestinesi, come fanno moltissime altre fabbriche nell’area».
ESEMPIO PER LA PACE. Della vicenda si è occupato anche il Christian Science Monitor. «All’ingresso della fabbrica SodaStream – ha scritto ieri il quotidiano statunitense – si erge una statua con inciso un versetto di Isaia: “Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra”». La statua fu commissionata da SodaStream quando l’azienda decise di acquistare l’edificio nell’insediamento di Mishor Adumim, che un tempo era sede di una fabbrica per munizioni. «Qui le donne in hijab lavorano fianco a fianco con gli immigrati russi ebrei, mentre giovani palestinesi lavorano sulle linee di montaggio che mettono a punto le macchine per la soda fai-da-te», scrive il Christian Science Monitor, che ha sottolineato come «nonostante l’Autorità Palestinese abbia fatto una legge nel 2010 contro i lavoratori negli insediamenti israeliani, i dipendenti di SodaStream sono solo una minima parte rispetto ai 22.000 palestinesi che ignorano il divieto».
IL BOICOTTAGGIO. I sostenitori del boicottaggio volto a porre fine all’occupazione israeliana della Cisgiordania, chiedono ai consumatori di non acquistare prodotti da aziende come SodaStream. E dalla scorsa primavera, alcuni membri dell’Unione europea hanno adottato una serie di misure contro le aziende con stabilimenti nelle colonie israeliane. Ma cosa accadrebbe se, come vogliono i sostenitori del boicottaggio, SodaStream lasciasse l’insediamento ebraico? «Non me ne preoccuperei molto dal punto di vista di SodaStream», ha spiegato ai media, l’ad dell’azienda, Daniel Birnbaum. «Potremmo semplicemente trasferire la produzione in un’altra fabbrica». SodaStream ha impianti di produzione non solo in Israele e in Cisgiordania, ma anche in Germania, Svezia, Stati Uniti, Australia, Cina e Sud Africa. Birnbaun ha osservato sarcasticamente, sull’International Business Time, che «i mercati come la Svezia, la Finlandia, la Danimarca e la Norvegia, dove si è deciso di boicottare i prodotti fatti negli insediamenti ebraici, continuano a essere aperti a quelli provenienti dalla “madre dei diritti umani”, la Cina».
Foto Ansa
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