
Statalismo di pace e di guerra
Tra la valanga di dispacci di agenzia che aggiornano in tempo reale lo speculare scenario dei bombardamenti Nato su Belgrado e la pulizia etnica in Kosovo c’è la richiesta del portavoce Nato – non sufficientemente notata dai media ma certamente non abbastanza strana per una guerra del 2000 – che “cerca consulenti per migliorare la sua immagine”. Ci sono almeno due ragioni che hanno complicato la cavalcata bellica della Nato e suggerito questa rincorsa all’immagine: la prima è l’errata convinzione di piegare Belgrado con analogo, spettacolare, massiccio, “bombardamento chirurgico” utilizzato contro l‘Irak; la seconda e, a nostro parere, più decisiva, la propagandata visione di una “guerra giusta” fatta nella convinzione di conquistare all’impresa bellica livelli crescenti di opinione pubblica occidentale allenata da tempo a rispondere con generosità e indignazione alle piccole e grandi tragedie altrui. Nel primo caso il calcolo si è rilevato sbagliato, perché la coesione del popolo serbo intorno ai propri rappresentanti politici è cresciuta in modo direttamente proporzionale al moltiplicarsi della pressione militare sulla Yugoslavia, ottenendo così il contrario di quanto era esplicitamente negli obbiettivi della Nato, e cioé invece che lo scalpo di Milosevic, scudi umani davanti all’effige del capo. Il secondo caso è però più serio poiché non è difficile stabilire un nesso di causa ed effetto tra escalation militare della Nato e cinica risposta serba nei confronti dei kosovari, popolo preso in ostaggio entro le tenaglie della guerra, per i serbi iniziata come difesa di sovranità, identità e suolo, per la Nato come affermazione di principi democratici, etici e umanitari (principi per altro, come da più parti osservato, mai difesi dall’Alleanza atlantica in tutta l’Africa e in quasi tutto il vicino, medio ed estremo oriente, dove anche oggi vengono diffusamente e sistematicamente negati). È comunque su questa seconda attitudine che i leader dei paesi occidentali stanno cercando di far leva per giustificare un’offensiva aerea che si vorrebbe lunga, diuturna e sicuramente vincente, poiché questo è il refrain, “ora che siamo in guerra, giusta o sbagliata che sia, dobbiamo vincerla”. Di qui il tragico tunnel in cui si sono infilate le cancellerie occidentali, che partite lancia in resta come san Giorgio contro il drago, ora temono di cadere vittime della sindrome-immagine di Davide e Golia (con tutte le conseguenze del caso di democrazie che dovrebbero giustificare di fronte ai propri cittadini la prosecuzione del conflitto) e dunque debbono assolutamente documentare che, se possibile, Milosevic è ancora più hitleriano di quanto sia già stato dipinto su stampa e tv occidentali. Sia ben inteso: noi non siamo tra i negazionisti che voltano la faccia ai macelli perpetrati sotto la protezione del regime di Belgrado. Diciamo però chiaro e tondo ciò che un approccio realistico doveva mettere in conto fino dal momento in cui gli alleati hanno messo il dito sul grilletto: i fatti sono lì a dimostrare che la tragedia in Kosovo ha assunto proporzioni catastrofiche quando la Nato ha volutamente o pregiudizialmente o inopinatamente preteso di risolvere con un massiccio intervento armato un conflitto esacerbato dall’ideologia del nazionalismo e dalle semplificate analisi americane sui Balcani. Nazionalismi e analisi che hanno preteso imporre dall’esterno non l’autonomia (come è stato dimostrato dal sostegno attivo alla guerriglia dell’Uck, convocata come vera controparte serba nei negoziati di Rambouillet) ma la secessione politica del Kosovo. In breve: nella presunzione di una schiacciante supremazia militare, si è sposata la linea di una élite di intellettuali, potenziale classe politica di un Kosovo e di un’Albania democratici del domani, contro l’evidenza dei fatti che reclamavano maggiore attenzione e più concreta determinazione per proteggere la ritirata di un popolo inerme lasciato inspiegabimente, colpevolmente e non vogliamo pensare anche calcolatamente, in ostaggio delle prevedibili ritorsioni dell’esercito yugoslavo. Si dice: che altro si poteva fare? Quello che si può ancora fare, un milione di deportati e un’infinità di morti e di atrocità dopo: trattare, trattare a oltranza, perdere le notti al tavolo dei negoziati, rinunziare ai diktat, garantire l’autonomia (o si dovrebbe ormai dire la spartizione?) del Kosovo con una forza militare di pace sì, ma che contempli anche i russi. È bello parlare in astratto di democrazia e diritti umani. Ma siccome da che mondo è mondo – eccetto che nel caso di Cristo – non si è mai visto che gli uomini sono così buoni da amare i loro nemici, bisogna fare i conti con la dura realtà del minor male possibile e del bene che non è mai da una parte sola. Quanto alla catastrofe annunciata dall’ideologia dell’etica che pretende stendere le sue presunte mani pulite a livello planetario, si leggano le acute osservazioni di quel laico atlantista che è Pierluigi Battista (qui di seguito, su Taz&Bao, tratte dal Foglio, of course), che rappresentano anche una documentazione di considerazioni che un uomo religioso come don Giussani va facendo da anni, denunciando il disastro a cui sta conducendo “l’etica che deriva dal naturalismo, dal razionalismo, distruttiva dell’etica che nasce, scaturisce dall’ontologia del discorso cristiano”. Quel disastro prodotto su piccola e grande scala dall’etica “statalista” di pace e di guerra, che in definitiva è quel “mondo senza io” e quell’“io senza Dio” a cui vorrebbero ridurre la vita dei popoli leader politici stolti e bombe davvero troppo, troppo intelligenti.
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