Stato di mafia, ballottaggiologia. E il caro Doninelli
Carissimo Direttore,
scrivo a te perché sei il volto con il quale io identifico Tempi e perché non sono certo di sapere chi è il Roberto Persico autore della bellissima nota sul mio romanzo La mano. Mi sono domandato se è uno pseudonimo (se non lo fosse, credo che conoscerei questa persona con questo nome), e poi: pseudonimo di chi? La chiarezza del giudizio, la limpidità del pensiero, la semplicità dell’esposizione e la forza dell’affezione al vero mi fanno venire alla mente alcuni volti a me cari, primo fra tutti quello di Francesco Valenti, che non è comunque Roberto Persico (la cui indulgenza nulla ha a che fare con Valenti, nemico giurato di ogni bonomìa, bonarietà e buonismo), anche se l’estensore della generosa recensione potrebbe essere suo amico, o cognato: non fosse che per il riferimento, a me graditissimo nel caso di questo libro, con Flannery O’Connor. Leggendo la sua raccolta di lettere (Sola a presidiare la fortezza, ed. Einaudi) mi sono sentito confortato perché mi è parso di cogliere nel suo modo di impostare il lavoro narrativo una forte somiglianza col mio. E soprattutto col mio di questo romanzo. La vita comincia a diventare una cosa seria quando i particolari della vita (la vita è tutta un particolare) non sono più autosufficienti. Quello che ci manca non è la coscienza dell’esistenza di Dio, ma la coscienza che la consistenza dei particolari della vita è una luce che viene da un Altro. Il mio J. Olsen si ferma su questa soglia. Costruendo case, scrivendo romanzi, allattando i figli, impostando calcoli matematici, amministrando un condominio o una città, facendo insomma quel che ci tocca noi veniamo toccati da Dio sui particolari. Dio ci chiede tutto, ma lo fa in un modo inconcepibile per l’uomo: chiedendogli una parte, magari piccola: andare a messa la domenica, confessarsi una volta l’anno, comunicarsi almeno a Pasqua, eccetera. Una piccola parte che un uomo può dare con vera libertà solo perché sa che essa è segno di tutto il resto. Non ha importanza che il romanzo sia “cattolico”, ossia pieno di ideologia cattolica fatta di lieti finali, di insegnamenti chiari, di una morale della favola, dell’affermazione stentorea del positivo (il quale, se ha bisogno di voci stentoree, è segno che dev’essere ben bolso). Importa che sia pagata la decima, ossia che le pietre con le quali costruiamo il romanzo siano della stessa qualità di quelle che doniamo per costruire la chiesa. È la stessa sottolineatura presente nel bellissimo film The big Kaluha. Tre venditori di lubrificanti per industrie devono contattare un possibile grande cliente da cui dipende il loro futuro. Tocca al più giovane stabilire il contatto. Ma il ragazzo, religiosissimo, preferisce intrattenersi col cliente parlando di Gesù Cristo: così la ditta perde il cliente. Interrogato dai colleghi, il ragazzo dice che per lui era più importante parlare di Cristo che dei lubrificanti. Qui sta il disastro, perché il problema serio (che i cattolici non capiscono, perciò mantengo le mie dimissioni) non è Gesù Cristo, ma sono i lubrificanti. Flannery O’Connor queste cose le sapeva molto bene. Per questo ho dato ai miei personaggi altrettanti nomi di profeti. Perché la profezia veterotestamentaria si arresta alla soglia del particolare quotidiano. E perché per varcare la soglia è necessario che il Messia sia arrivato, simile alla riga di tramonto dorato che fa da sfondo alla sera piovosa di Boston (o di Londra) durante il più memorabile concerto del mio protagonista rocchettaro. È più facile sacrificare il proprio unico figlio a un Dio evidente nella sua pienezza d’amore che non sopportare una mano che non funziona più a dovere, e accettarla e amarla ancora. Anche Dio ha sacrificato il suo Figlio, ma l’ha fatto per l’uomo, per la sua precarietà – si è inginocchiato dinanzi all’uomo precario e peccatore e cattivo. Il gesto di Abramo sarebbe stato ragionevole, quello di Dio non lo è stato. Ma il nostro rapporto con i particolari è vero solo se appartiene all’irragionevolezza (sia inteso tra virgolette) di Dio. Grazie di cuore, un grande abbraccio
Luca Doninelli
P.S. Ora che le elezioni ci hanno liberato dall’Ulivo (speriamo per almeno cinque anni), non ci resta che chiedere a Dio di liberarci dal male. La battaglia infatti si fa più dura che mai, i fronti si moltiplicano, i nemici raddoppiano – quelli di ieri accresceranno il loro odio, quelli nuovi sono dietro l’uscio – e occorrono una chiarezza e una forza culturali – perché da adesso la battaglia sarà sempre più culturale, e i nostri grandi temi (scuola, sussidiarietà ecc.) o cominciano a creare i presupposti per una civiltà, o – tra le altre cose – saranno dolori. Bisogna perciò che serriamo i ranghi. Non per creare nuove lobbies o nuove ideologie, non per uniformarci (questo mai), ma solo per aiutarci a “essere” sempre di più.
Giorni fa il Monte dei Paschi (i compagni esattori del padrone: lo Stato) per conto del fisco mi ha spedito una cartella in cui si reclamano 105mila lire, tra multa e interessi, per la supposta elusione della tassa sul medico di famiglia (11.500 lire) nel mod. 740 del ‘95; ben sei anni fa. Sono andato al Caf e sono venuto a sapere che cartelle simili sono state spedite a pacchi. Moltissime sono errate. Ciò significa che il contribuente in regola e in pace con la propria coscienza dovrà comunque pagare almeno 50mila lire (il costo del ricorso) per dimostrare allo Stato che a sbagliare è stato lui. Quanto è costato accertare un errore o una omissione inesistente? Quanto è costato spedire le cartelle? Che dire della indebita tassa aggiuntiva rappresentata dal ricorso?
Pietro L., giunta via Internet
Da dove viene la parola “ballottaggi”? È noto che i Veneti sono stati fondatori e primi realizzatori della forma repubblicana moderna. La pertecipazione democratica era tale che per 100.000 abitanti medi, Venezia contava 1.000 parlamentari, se pur di nomina ereditaria. Nella Repubblica Veneta, nota anche come “la Serenissima” per la serena applicazione della giustizia a chiunque, e terra di S. Marco per la presenza delle spoglie del santo, durante le votazioni si faceva molta attenzione a che non si realizzasse compravendita di voti, veti incrociati contro candidati indipendenti, ed in generale si vietava ogni forma di pubblicità politica. Il principio fondamentale, costituzionale, era che è la carica che cerca l’uomo adatto, non l’uomo che cerca la carica. Particolarmente complesso e basato su metodi matematici precisi era il procedimento per l’elezione del Doge, che era la più alta carica, a vita, della repubblica, ma che non deteneva un potere totale dovendosi confrontare sempre con gli altri poteri dello Stato. C’era la divisione dei poteri anche religiosi. Appunto nella elezione del Doge, una successione di votazioni permetteva di esprimere sempre una prestigiosa figura indipendente, e fu così che la repubblica dei veneti resse per 800 anni sovrana. Delle commissioni votavano altri membri, i quali votavano un’altra commissione, la quale votava altri membri votanti un’altra commissione… così via più volte, per impedire che qualunque accordo potesse realizzarsi. L’ultima commissione eleggeva il Doge. L’espressione dei voti veniva scritta su di un foglietto, e inserite in delle sfere lisce, dette “balote” pronunciato [baote], parola veneta tutt’ora in uso che significa “palle”, sfere, biglie. Le balote con i voti venivano messe in una urna, e venivano fatte pescare con una manina di legno, in modo che nemmeno al tatto si potesse distinguerle. Da questo sistema di voto è nato il ballottaggio, che però, come viene applicato dai non veneti, spesso non ha quelle garanzie di indipendenza dalle correnti politiche che dovrebbe esprimere un rappresentante di Stato, sempre più confuso con il capo di un partito come negli Stati comunisti e fascisti.
Loris Palmerini, Padova
IL DIRETTORE RISPONDE
Caro Doninelli, Roberto è proprio un Persico, in carne, intelligenza e semplicità. Il cognato di Valenti ha solo e sempre debiti, nell’amicizia come nei conti in banca. Sotto la nuvolaglia però c’è quella Cosa che tu, incautamente, riferisci a ogni lettore che più di noi e più di te sa che il mondo è bello e feroce. Ma tu sai che non ce ne importa niente perché tu sei realmente un artista e noi facciamo uno strano mestiere che forse non ci appartiene. Ti ricordi che un venerdì sera dicesti che, dopo tanto tempo, ci saremmo incontrati tra i sedicimila scesi a Rimini per un round di esercizi spirituali (l’unica roba cattolica da cui non ti sei dimesso)? Beh, ci siamo proprio incontrati, la domenica dopo, per caso e… hai sentito? «La vocazione non è solo un “Io”, è un popolo. Noi vogliamo toccare il fondo, il rude, il reale. Il popolo solo è la terra profonda, il popolo solo testimonia». Anche se sai che nome ha, da dove viene e che mestiere fa, riesci a spiegarti quella compagnia al destino venuta da uno che ha quasi ottant’anni e che ancora si incazza se non gli viene una parola? Ci dice, «siamo come un fusibile in rapporto costitutivo con l’Infinito» e non c’è altro da fare che «pregare e scongiurare Colui a cui apparteniamo perché non ci abbia chiamati invano, lo si può fare sempre, è un’intenzione, il sole getta tra le nuvole una luce su tutto quello che facciamo, ho scoperto la forma giaculatoria più completa dal punto di vista cristiano, vieni Santo Spirito, vieni attraverso la Madonna, ripetetelo sempre…». Non è Nicolás Gómez Dávila, però sapere che – pure se quello non è quasi mai uscito di casa per tutta la vita stando a Santafé de Bogotá e non ha lasciato un solo erede, questo è stato chiamato a calcare il mondo e a piantare in esso decine di migliaia di figli – i due sono una cosa sola, beh, questo è tutto quello che l’uomo può vedere in questo mondo. Come noi, caro Luca, direbbe Dávila, gente di cammino, perché «ogni fine diverso da Dio ci disonora».
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