Storia del Coro del Capitano Grandi, nato dall’opera di Eugenio Corti

Di Benedetta Frigerio
07 Giugno 2016
Al convegno di Milano si esibirà un coro nato dagli incontri tra un gruppo di universitari e l'autore del "Cavallo Rosso". Ci racconta la storia Paolo Ragazzi, direttore dal 2009 al 2011

eugenio-cortiDall’opera di Eugenio Corti è nato il coro “Capitano Grandi” che parteciperà al convegno “Al cuore della realtà”, organizzato dall’Università Cattolica insieme alla Sorbona di Parigi che si terrà il 7 giugno nella cripta dell’Aula Magna di Largo Gemelli. Paolo Ragazzi, direttore del coro dal 2009 al 2011, spiega a tempi.it «il contributo nell’esperienza del canto e nella vita di chi, come me, ha incontrato Corti e i suoi testi».

Il vostro coro prese il nome di “Capitano Grandi” nel 2003, quando alcuni giovani dell’Università Statale entrarono per la prima volta in contatto con Eugenio Corti. Cosa si ricorda di lui?
Incontrai per la prima volta Corti nel 2007 quando parlò agli studenti di un liceo brianzolo e ne rimasi colpito. Sapevo che il coro a cui partecipavo, e che poi avrei diretto, aveva il nome del “Capitano Grandi”, un personaggio del Cavallo Rosso, che morì in guerra molto giovane, cantando la sua gratitudine per la vita. Una gratitudine per i doni ricevuti, che gli aveva permesso di morire in pace nonostante il gelo, lontano dalla donna, dalla madre, da casa. L’altra cosa che mi colpì di questo personaggio era che la sua positività attraeva e generava compagnia intorno a sé. Come a dire che anche nella condizione peggiore il cuore di ogni uomo desidera la verità e la bellezza e qualcuno che gliela indichi. Lessi il romanzo insieme ad altri amici del coro e poi andammo ad incontrare Corti.

Cosa la colpì di Corti?
Il fatto che casa sua era aperta a chiunque bussasse. Amava la realtà e la leggeva con una profondità incredibile e alla luce della tradizione. Sapeva parlare del Medioevo e di san Tommaso d’Aquino, ma anche del Sessantotto e dei giorni nostri.

Come ha inciso questo incontro su di voi?
Tentiamo di immedesimarci in lui e vedere le cose come le vedeva lui. Ci aiuta il fatto che i nostri canti sono sempre accompagnati dalle letture dei suoi testi. Penso a Gli ultimi soldati del Re, dove un ferito chiede al protagonista quale senso abbia la battaglia e quello gli risponde che il senso di ciò che fanno è la patria: ma non come qualcosa di astratto e lontano, bensì intesa secondo le sembianze di persone reali: la casa, la moglie, la fidanzata, la madre. Quelle cose che hai vissuto e che ami. Lo stesso dice don Carlo Gnocchi nel libro Cristo con gli alpini: quando i passi nella neve si fanno pesanti a rinvigorire i soldati è il pensiero di questa patria. Se canti immedesimandosi con queste esperienze, cambia tutto.

In che senso?
Il mio modo di cantare è stato plasmato, insieme alla mia esistenza, da questo incontro con Corti e le sue opere. Mi vengono in mente due frasi di Corti in cui si parla del canto degli alpini. Nella prima di dice: «Cantavano gli alpini, cantavano e piangevano gli alpini valorosi, e c’era nel loro canto paziente tutto lo struggimento della nostra umana impotenza». E nella seconda: «Cosa sarà che ci tocca il cuore a questo modo? (…) Era un’esperienza d’altri, non del cantante o degli ascoltatori, eppure così riferita era tale che in essa sembrava si concretasse la nostalgia di ciascuno dei presenti: quella che stava nel cuore del modesto cantore, e di Ambrogio, e degli altri soldati, uno per uno». Quando Corti morì, scrissi un biglietto alla moglie, confidandole che queste due frasi, lette e rilette, mi avevano profondamente cambiato. La sua opera è ancora viva e continua a generare bellezza e incontri.

@frigeriobenedet

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1 commento

  1. Celso

    Della trilogia di Corti, Il Cavallo Rosso, ho letto il primo e il terzo romanzo (ho saltato il secondo perché supponevo che fosse per contenuto e stile simile al primo). Non metto in dubbio che la vicenda narrata possa essere interessante, ma per scrivere un romanzo bisognerebbe avere anche un qualche talento di scrittore, ed invece è proprio questo ciò che manca a Corti. Il suo stile è scialbo, monotono, privo di invenzione. Si sforza di essere asciutto, incisivo, ma è solo noioso e ripetitivo.
    Linguaggio a parte, penso che si possano fare anche altre considerazioni circa la mediocrità di Corti come romanziere. Ho sempre pensato, e verificato, che i grandi scrittori e poeti sono sempre ideologicamente “irriducibili”. Potrei citare le numerose interpretazioni critiche che vedono in Leopardi o Manzoni o Verga o Pascoli ecc. ora un “progressista” ora un “conservatore”, anche con valide argomentazioni, ma certamente insufficienti e inadeguate a spiegarne la complessità. La natura umana e la visione storica a cui attingono i grandi artisti sono troppo complicate e profonde per essere inquadrate in uno schema ideologico. Al contrario, ogni pagina del buon Corti trasuda “ideologia”. Quella dell’Opus Dei o di Plinio Correa De Oliveira, tanto per intenderci, che trova l’origine di tutti i mali del mondo nel Rinascimento, seguito dall’Illuminismo, dalla rivoluzione russa e infine dal ’68. In questa visione apocalittica di inarrestabile decadenza, tutti i guai dell’umanità sono cominciati da quando la chiesa ha progressivamente cessato di esercitare la propria egemonia culturale sulla società. Il mondo di Corti risulta così ingenuamente diviso tra “buoni” e “cattivi” senza nessuna visione critica. Si può supporre che Manzoni (a cui qualcuno ha avventatamente accostato Corti) non avesse una grande stima dell’intelligenza della plebe milanese che saccheggiava i forni, ma almeno ha cercato di capirne le ragioni in pagine giustamente memorabili. Ma da dove saltano fuori i “cattivi” (i comunisti) nella pagine di Corti? Si era accorto che in Italia, nel dopoguerra, c’era stata una “rivoluzione” che aveva trasformato un paese ancora contadino in una potenza industriale? Forse sì, ma probabilmente la riteneva conseguenza del Rinascimento, oppure opera del demonio. In definitiva, oltre alla debolezza formale anche la rozzezza dello schema ideologico fa sì che il “romanzone” di Corti non meriti, almeno a mio parere, il tempo e la fatica necessari per arrivare fino in fondo.

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