Storia di Galina Nelidova, che finì in un gulag per una foto

Galina Nelidova è un’arzilla novantenne, nata a Kiev da padre agronomo e madre insegnante. Dopo un breve periodo vissuto a Mosca, ha trascorso la sua infanzia in Ucraina, dove ha preso un grazioso accento del sud. Da piccola i genitori, pur non essendo benestanti, riuscirono a farle prendere lezioni di pianoforte da un’insegnante di origine tedesca, che le trasmise anche le basi della lingua.

All’entrata in guerra dell’URSS nel giugno del 1941, Galina era dai nonni in Ucraina, di lì a poco occupata dai nazisti. Nel settembre del ’43 l’Armata Rossa riuscì a respingere i tedeschi che però portarono con sé moltissimi civili da utilizzare come forza lavoro gratuita (gli Ostarbeiter), fra i quali la sedicenne Galina, che fu destinata in Norvegia e che lungo il tragitto fece da interprete tra soldati e detenuti.

Il campo di lavoro nei pressi di Oslo era formato da poche baracche, i detenuti utilizzati alla costruzione di un aerodromo. Ben presto per il freddo e l’umidità scoppiò un’epidemia di foruncolosi. La notizia arrivò alla comunità di immigrati russi che abitavano in città, fra i quali c’era il nipote del compositore Rimskij-Korsakov che chiese al proprio medico di occuparsi dei prigionieri malati, e Galina gli fece da assistente.

Poi avvenne l’episodio che le avrebbe condizionato la vita, e che ha raccontato al progetto Coda Story. «Era biondo, occhi chiari, alto… il tipico scandinavo. Venne al campo e chiedeva in giro: “Vi serve qualcosa?”. Io risposi di no, ma il giorno dopo tornò e mi portò una scatola di caramelle, e cominciammo a chiacchierare». Eberhard, che viveva in una fattoria lì vicino, tornò spesso e, dato che il campo non era sorvegliato dai tedeschi ma dai norvegesi, più benevoli, poteva accompagnarla con altre ragazze per brevi passeggiate all’esterno. «Era curioso di sapere se Stalin fosse buono o cattivo… Ma che ne sapevo io allora?!».

Nel maggio del ’45, finita la guerra, le diede una sua fotografia, «a ricordo di quando ci siamo conosciuti; Le auguro ogni bene». «Sul retro c’era una breve dedica, la stessa frase ripetuta in norvegese, tedesco e inglese: “Io credo nell’amore a prima vista”. Presi la foto, sorrisi e tutto finì lì».

Gli Ostarbeiter vennero rimpatriati, «la madrepatria vi attende a braccia aperte!» campeggiava sui treni che riportavano ad est, un abbraccio che però costò caro a molti che nei centri di filtraggio non passarono «l’esame» dell’NKVD e finirono nei lager della madrepatria sovietica. Galina non fece parola della sua conoscenza del tedesco e dei suoi buoni rapporti con i norvegesi, e poté rientrare a Mosca nell’estate del ’45, accolta dai genitori che da due anni non avevano più avuto sue notizie. La ventenne si iscrisse all’università dove studiò pedagogia, nel frattempo si sposò ed ebbe una figlia.

La sera del 30 dicembre 1949 irruppero gli agenti del Ministero degli interni, perquisirono ovunque, guardarono libri e album fotografici, e trovarono quella foto con la triplice dedica. Bastò questo per arrestarla. Galina fu condotta in carcere: «Parla! Spiegaci cosa significa questa frase in codice e a chi dovevi trasmetterla!». «Mi interrogavano di notte, non mi lasciavano dormire, una vera tortura durata per quasi otto mesi… Nessuna indagine, giudice, avvocato, solo interrogatori». Solženicyn nell’Arcipelago ricorda infatti che l’insonnia era diventata «il mezzo universale per gli Organi, dalla categoria di tortura era passata a quella di normale prassi».

A Galina sottoposero un documento da firmare, su cui era indicata l’imputazione: «tradimento della patria», paragrafo 1-a del famigerato articolo 58 del codice penale. Se fosse stata un soldato l’avrebbero fucilata, ma per i civili la pena prevista era «solo» di 10 anni di lager a regime speciale. Finì al DubravLag, in Mordovia, che avrebbe ospitato dissidenti «famosi» come gli scrittori Sinjavskij e Daniel’.

L’industria carceraria sovietica sfruttò lei e altre giovani in un’azienda tessile, dove cucivano divise militari. Lavoro pesante e soprattutto l’angoscia di non poter comunicare con la famiglia: una lettera ogni 6 mesi.

Nel ’53, dopo la morte di Stalin, il suo caso fu riesaminato: «Arrivò un giovane funzionario e iniziarono a chiamarci in ordine alfabetico. Scorse il mio fascicolo ed esclamò, scoppiando a ridere: “Che spia, una vera Mata Hari!”».

Nel gennaio del 1954 poté tornare a Mosca e riprendere una vita normale, tacendo sul suo passato. «Non ne ho mai parlato perché le persone percepivano quelle cose in modo diverso, e anche oggi è così». «Trovo vergognoso che la gente non conosca ancora la verità. Quando sento dire da Zjuganov [leader del Partito comunista] che furono arrestate solo poche migliaia di cittadini, che erano tempi particolari, mentre sappiamo benissimo che si trattò di milioni di persone, e che ancor oggi a Butovo, alla Kommunarka, vi sono sepolti innocenti che furono fucilati e di cui non sappiamo nemmeno i nomi… E dovrei accettare la definizione di Stalin “ottimo manager” [usata in un manuale scolastico]? Non posso, non riesco a formulare una simile convinzione».

Anche l’attuale situazione socio-politica russa non la lascia tranquilla: «Ci sono molte cose che non mi piacciono; arrestano per una sciocchezza, procedono penalmente… Non mi piace, i miei pensieri tornano con orrore a quei giorni, Dio non voglia che tornino quei tempi. Prego Dio che i miei nipoti e pronipoti possano vivere in un paese normale».

Dal 1964 fino al pensionamento, Galina ha lavorato come maestra d’asilo. Nel 1991 finalmente la riabilitazione ufficiale, ma non ha mai voluto vedere il suo fascicolo, e la foto del giovane scandinavo che credeva nell’amore a prima vista giace ancora negli archivi del Ministero degli interni.

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