
Te Deum laudamus per quello che ho ricevuto. Incluso il carcere

Questo articolo è tratto dal numero di Tempi in edicola a partire dal 31 dicembre (vai alla pagina degli abbonamenti), che è l’ultimo numero del 2015 e secondo tradizione è dedicato ai “Te Deum”, i ringraziamenti per l’anno appena trascorso. Nel “Te Deum” 2015 Tempi ospita, tra gli altri, i contributi di Antonia Arslan, Sinisa Mihajlovic, Luigi Brugnaro, Marina Terragni, Totò Cuffaro, Gilberto Cavallini, Luigi Negri, Costanza Miriano, Mario Adinolfi, Marina Corradi, Roberto Perrone, Renato Farina.
Esponente storico di primo piano della Dc siciliana, che ha seguito fedelmente in tutte le sue evoluzioni fino all’Udc di Casini, Totò Cuffaro è stato governatore dell’isola dal 2001 al 2008. Il 13 dicembre scorso è uscito dal carcere di Rebibbia dove ha scontato quasi cinque anni di pena (dal 22 gennaio 2011) per i reati di favoreggiamento aggravato alla mafia e rivelazione di segreto istruttorio, accuse che lui ha sempre respinto
Qualunque detenuto che lasci il carcere in prossimità della fine dell’anno è in grado di comprendere il significato della preghiera liturgica del Te Deum che la Chiesa ci fa cantare, oltre che in alcune solennità, la sera del 31 dicembre, per ringraziare dell’anno appena trascorso. (Non a caso si canta anche nella Cappella Sistina dopo l’elezione di un nuovo papa)!
Ricordo ancora quando da bambino lo ascoltavo cantato in latino in chiesa in paese l’ultimo dell’anno senza capirne le parole, ma con mia mamma che me ne spiegava il significato, perché diceva: «Abbiamo sempre da ringraziare il Signore, almeno perché ci ha fatto nascere e ci ha fatto giungere fino ad oggi».
Il mio Te Deum di quest’anno non può che essere innanzitutto un ringraziamento per la riconquistata libertà. Ma i 1.780 giorni trascorsi a Rebibbia mi hanno insegnato che solo questo sarebbe poca cosa. Il mio Te Deum di quest’anno è anche un ringraziamento per essere tornato a casa, dove una mamma ultranovantenne, una moglie, due figli, due fratelli, tanti parenti e tantissimi amici mi hanno atteso con immutato affetto. Ho imparato, in carcere, che non tutti i detenuto hanno la stessa fortuna. Ma anche questo non dice tutto.
Il mio Te Deum di quest’anno è soprattutto il riconoscimento per quello che di più caro ho riportato a casa dal carcere: la fede. Mai come quest’anno la frase di san Paolo mi è stata cara, presente e concreta: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede». Sì, perché il carcere, in barba a tutti i proclami dello Stato e delle sue leggi, è un luogo dove ci si può perdere e ancor più si può perdere la fede. Ma la fede è di per sé libera, non può essere imprigionata e non deve essere strumentalizzata, neanche se appartiene a un detenuto, sia esso cristiano o di fede islamica. In questi anni ho continuato a pregare insieme al mio buon amico e compagno Jalal, abbiamo pregato con la stessa intensità e con le stesse intenzioni per le vittime del terrorismo e abbiamo pregato nello stesso modo. Di diverso soltanto il mio sguardo rivolto al cielo dove c’erano i gabbiani e quello di Jalal rivolto verso il muro della cella in direzione della Mecca.
E ciò che non mi ha fatto perdere la fede è stata la Misericordia. La Misericordia di Dio che è in grado di attraversare tutte le celle e tutte le grate che impediscono ai detenuti di uscire.
Maestro e Padre in questa Via Crucis mi è stato papa Francesco. Dei suoi tanti interventi nelle visite alle carceri di tutto il mondo voglio ricordare quanto disse a Palmasola, in Bolivia. «Quello che sta davanti a voi – ha detto parlando di se stesso – è un uomo perdonato. Un uomo che è stato ed è salvato dai suoi molti peccati. Questa è una certezza della mia vita. L’amore di Dio è un amore che guarisce, perdona, rialza, cura, che si avvicina e restituisce dignità. Gesù è un ostinato in questo: ha dato la vita per restituirci l’identità perduta. Quando Gesù entra nella vita uno non resta imprigionato nel suo passato ma è in grado di piangere e lì trovare la forza di ricominciare».
Oggi se non avessi la fede, non so dove troverei le forze per ricominciare. La vita è un ricominciare sempre, ogni giorno, ogni istante. La realtà provoca e noi non possiamo non prenderla sul serio e ciò vuol dire accettare la sfida che essa ci pone. La chiave di volta sta nel rapporto con noi stessi, tra noi e ciò che ci sta attorno. Da ciò non dobbiamo rifuggire perché è il culmine e la misura della sfida. Dobbiamo pregare più intensamente perché la Misericordia sia sempre presente nei nostri cuori e nella nostra vita, sia di detenuti sia di uomini liberi. Il Papa ha annunciato il Giubileo speciale della Misericordia e ha voluto per il 6 novembre 2016 il giorno del Giubileo del detenuto, riaffermando e ribadendo la sua attenzione per chi è privato della libertà. Ma ha stabilito che il Giubileo si possa fare anche in carcere, anche senza la porta della Misericordia che c’è in certe chiese. Non è appena una innovazione: è una rivoluzione perché capovolge la logica! È la Sua Misericordia che ti viene incontro; devi solo chiederLa e riconoscerLa. La Misericordia è al di sopra di ogni sovranità e di ogni potere, di ogni inferiorità e di ogni soggezione.
È questa Misericordia che mi ha consentito di tornare a casa e trovare mia moglie e i miei figli che mi attendevano. Mio figlio ha voluto ricordarmi una frase di Telemaco, il figlio di Ulisse: «Se gli uomini potessero scegliere ogni cosa da soli, per prima cosa vorrei il ritorno del Padre». Tutti attendiamo un padre. Tornato a casa non ho trovato mio padre, morto qualche anno fa. Ma mio figlio ha ritrovato suo padre che attendeva da quasi 5 anni. Dopo gli abbracci e la commozione ha voluto spiegarmi il senso dell’attesa più o meno così: l’assenza di un padre è un’assenza sempre presente. È grazie a questa tua assenza che abbiamo potuto capire il tuo sacrificio e comprendere il dono più grande che potevi farci: la testimonianza di una vita concreta, là dove non avremmo mai potuto aspettarcelo, in un carcere.
Ecco perché il Te Deum di quest’anno sarà diverso e particolare; non solo perché potrò tornare a cantarlo nella chiesa del mio paese, dove sono stato battezzato e introdotto alla Chiesa di Dio, ma perché per ripartire occorre ringraziare per quello che abbiamo ricevuto, anche per una colpa inflitta ingiustamente o una morte che non avresti voluto che accadesse.
Foto Ansa
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